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MILANO, IL REATO DI PRESENZA…

MILANO, IL REATO DI PRESENZA La piccola quanto battagliera rivista reggiana Pollicino, emanazione del gruppo che ruota attorno a Mag6, ha dedicato l’ultimo numero al caso dei ragazzi arrestati e poi condannati per i fatti di Milano del 16 marzo…

MILANO, IL REATO DI PRESENZA

La piccola quanto battagliera rivista reggiana Pollicino, emanazione del gruppo che ruota attorno a Mag6, ha dedicato l’ultimo numero al caso dei ragazzi arrestati e poi condannati per i fatti di Milano del 16 marzo scorso. Dopo i disordini e le violenze nate dal corteo antifascista che si contrapponeva a una manifestazione della Fiamma Tricolore, furono arrestate una trentina di persone che avevano partecipato al corteo. L’intervento delle forze di polizia fu però successivo ai disordini e nessuno degli autori degli atti di vandalismo finì in manette. Il carcere si aprì invece per chi non era fuggito e magari non lo aveva fatto perché riteneva di non avere nulla da temere.

Sbagliato, perché di questi tempi l’ossessione per l’ordine spinge le forze di sicurezza ad agire ben oltre i confini del codice penale e anche del buon senso. Servivano degli arresti e questi sono stati effettuati. I veri vandali sono scappati ben prima che gli agenti entrassero in azione? Non importa, c’è pronta per tutti l’accusa di concorso morale in devastazione e saccheggio. La sentenza – dopo quattro mesi di carcere preventivo inflitto  anche ad alcuni ragazzi poi assolti – ha confermato che la semplice presenza al corteo configura il reato suddetto. Diciotto ragazzi hanno avuto una condanna di quattro anni, da scontare agli arresti domiciliari. E’ un brutto precedente per la nostra giurisprudenza in tema di libertà di espressione del pensiero.

Qui sotto l’articolo che ho scritto per Pollicino.

Potremmo dire che tutto è cominciato a Genova. Fu la procura del capoluogo ligure, all’indomani del G8, ad avviare un’inchiesta (una delle tante scaturite dai fatti dle luglio 2001) che s’incardinava su un’ipotesi di reato ben precisa: la devastazione e saccheggio. Era l’inchiesta, secondo la dfeinizione data dai media, "contro il black bloc". In realtà nessuno degli indagati poi rinviati a giudizio (in tutto 26) aveva fatto parte del "blocco nero" visto in azione nelle strade di Genova, ma quell’inchiesta aveva un valore simbolico e politico importante, perché doveva bilanciare, "dimostrando" l’imparzialità della magistratura genovese, i procedimenti aperti contro agenti e dirigenti delle forze dell’ordine per i gravissimi fatti della Diaz (un brutale di pestaggio di decine di persone, poi arrestate sulla base di prove false) e di Bolzaneto (decine di detenuti insultati e maltrattati). Il processo ai 26 ha così assunto un valore che trascende le specifiche contestazioni rivolte agli imputati. Non a caso è stato il primo a cominciare ed è anche l’unico, dei principali procedimenti seguiti al G8, destinato ad arrivare al terzo grado di giustizia, senza incappare nella prescrizione, che invece salverà le decine di agenti sotto processo per Diaz e Bolzaneto. I pm genovesi, all’epoca, decisero dunque di procedere accusando gli indagati – che furono arrestati e costretti a trascorrere mesi in prigione o agli arresti domiciliari (sorte che non è toccata ad alcuno dei poliziotti indagati negli altri procedimenti) – di un reato grave e dalle pesanti conseguenze: dagli otto ai quindici anni di reclusione. Si cominciò a capire allora, nel corso dell’inchiesta e poi al momento dei rinvii a giudizio, qual era la portata non solo giudiziaria, ma anche politica e per certi versi culturale, dell’operazione avviata dalla procura di Genova. Si assisteva, in sostanza, a un’escalation della repressione giudiziaria – dopo quella avvenuta in piazza – contro il dissenso politico manifestato dai movimenti cosiddetti no global. Più in generale lo stato impresse un connotato autoritario alla sua azione, allineandosi a una tendenza internazionale che ancora non cessa di influenzare governi e forse di sicurezza in tutto l’occidente.

Il 2001 è stato un autentico anno di svolta. L’uso della forza poliziesca durante le manifestazioni di piazza non è stata una specialità italiana, visto che i fatti di Napoli (marzo) e Genova (luglio) vanno collocati in una scia che include eventi analoghi avvenuti a Goteborg e Praga, solo per citare i casi più eclatanti. La risposta cieca e violenta scelta dalla polizia statunitense a Seattle di fronte alla contestazione della Wto, nel novembre 1999, aveva fatto scuola. Gli attentati dell’11 settembre non hanno fatto che accentuare ed imprimere una spaventosa accelerata a tendenze repressive già in atto. E’ cominciato in quell’anno un processo di trasformazione della democrazie statunitense e di quelle europee in senso autoritario. I fatti di questi cinque anni lo dimostrano: solo in Italia abbiamo avuto innumerevoli “piccole Genova”. Il pestaggio notturno del dicembre scorso a Venaus, contro un gruppo di cittadini che occupava pacificamente un terreno in attesa di una prospezione in vista della Tav, ha offerto una rappresentanzione plateale e sfacciata del nuovo volto assunto dallo stato dopo la svolta del 2001. Si sono calpestati i più elementari diritti costituzionali con grande arroganza e senza offrire la minima giustificazione, se non l’idea, che sta piano piano entrando nel senso comune della cittadinanza, che ogni manifestazione aperta di dissenso è passibile della più netta e violenta censura.

In questo contesto interno e internazionale, quanto avvenuto a Genova, anziché costituire una vergogna per le forze di polizia di uno stato democratico, è divenuto un caso di scuola: presto, la partecipazione manganelli alla mano alle giornate genovesi, potrebbe divenire un motivo di vanto all’interno delle nostre forze dell’ordine (i primi segnali in questo senso, peraltro, si videro già nell’estate di cinque anni fa).

I fatti di marzo a Milano e la successiva vicenda giudiziaria si inscrivono a pieno titolo in questa vicenda. Sono il risultato della nuova concezione autoritaria che si è affermata nella nostra democrazia. Il messaggio inviato alla cittadinanza è molto netto: il dissenso, specie quello radicale, espresso al di fuori dei canoni edulcorati dei media e delle istituzioni rappresentative, espone alla repressione più dura. Oggi finiscono nel mirino principalmente le minoranze considerate “radicali”, che sono le meno protette sul piano politico e simbolico. Di fronte a disordini, episodi di vandalismo, o scontri fra manifestanti e forze dell’ordine (quale che ne sia l’origine) il consenso della cittadinanza è garantito e quindi è più semplice agire. Ma la vicenda di Venaus dimostra che siamo già oltre questa fase: la repressione può colpire il dissenso comunque esso venga espresso, specie se coglie nel segno e mette in difficoltà i poteri economici e politici consolidati.

Viviamo una fase molto critica per le libertà civili. Il modello produttivo dominante, negli ultimi anni, ha dimostrato di preferire paesi a conduzione autoritaria rispetto alle normali democrazie costituzionali: non a caso il paese economicamente più brillante è la Cina. E’ in pericolo la stessa democrazia formale, come dimostrano le legislazioni antiterrorismo introdotte negli Stati Uniti e in tutti i paesi europei. Può sembrare una battaglia di retroguardia, di fronte alla degenerazione dei poteri e allo spirito di sopraffazione che sta invadendo le nostre società, ma la lotta per il rispetto dei diritti costituzionali oggi va combattuta senza esitazione, cominciando ad inchiodare alle proprie responsbailità i rappresentanti istituzionali che si richiamano alla tradizione democratica. Il cedimento della cultura garantista e l’indebolimento dell’impegno nella tutela delle libertà civili storicamente appartenuto alla sinistra hanno lasciato campo libero alla cultura autoritaria, che ormai ha sfondato gli antichi confini della destra politica. C’è una battaglia culturale da rilanciare, prima che sia troppo tardi.

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