Economia / Attualità
Migranti e lavoro: una ricerca sfata alcuni falsi miti
L’80% dei migranti presenti in Italia risiede nel nostro Paese da oltre 5 anni. Tra gli stranieri, il 34% svolge lavori poco qualificati, ma il problema è principalmente nostro: se arrivano molti soggetti con un livello di formazione basso, è perché sono gli unici che sappiamo attrarre. Lo spiega lo studio “Migration Observatory’s Report: Immigrants’ integration in Europe”
Nei Paesi mediterranei più di 4 stranieri su 5 sono arrivati da oltre 5 anni. Dal 2011, inoltre, Italia, Spagna, Francia e Grecia registrano il minor numero di nuovi arrivati in rapporto alla popolazione.
Questo è la fotografia scattata dallo studio “Migration Observatory’s Report: Immigrants’ integration in Europe”, condotto dal Centro Studi Luca d’Agliano e il Collegio Carlo Alberto dell’Università degli Studi di Torino, e pubblicato ad inizio febbraio 2017. Le rilevazioni sono state condotte nel 2015. A livello europeo la media di stranieri, intesi come persone non nate nel Paese in cui risiedono, è pari a circa il 10% della popolazione, e di questi quelli arrivati negli ultimi 5 anni sono meno di un quinto. La maggior parte degli stranieri residenti in Europa, cioè, è presenta da lunga data.
La ricerca è condotta attraverso il data set European Force Survey, concentrandosi sulla distribuzione della forza lavoro in Europa, misurando anche i livelli di integrazione economica e lavorativa degli immigrati in tutti i paesi europei.
L’analisi copre tutti i 28 paesi dell’UE, più Norvegia, Svizzera e Islanda. Una realtà, dati alla mano, differente da come appare nelle cronache quotidiane, soprattutto per i Paesi meridionali. “La percezione che abbiamo ogni tanto è che sia un fenomeno completamente recente, ma non è così. Non lo è in tutta Europa, men che meno in Italia, dove solo il 10% degli immigrati è residente da meno di 5 anni” spiega Tommaso Frattini, professore di Economia del Lavoro all’Università di Milano e responsabile dello studio assieme a Ainhoa Aparicio Fenoll del Collegio Carlo Alberto di Torino.
Al 2015 erano 5,7 milioni gli stranieri in Italia, dei quali solo 580.000 arrivati negli ultimi 5 anni. Altro aspetto, bene più “impressionante” stando alle parole del professore, “è la stretta correlazione tra il livello di istruzione del Paese e quello di chi arriva. Perché l’offerta di lavoro si orienta in relazione al livello d’istruzione”.
“La qualità della forza lavoro immigrata si orienta in corrispondenza all’istruzione del Paese” questo è sinteticamente quanto rilevato attraverso la ricerca.
Così i Paesi del Nord -Gran Bretagna, Germania, Norvegia- attirano forza lavoro più qualificata, perché il livello medio di istruzione dei residenti è più alto. Sono circa il 30 % i residenti che hanno concluso studi terziari ovvero università e master. Direttamente proporzionale, la situazione per i Paesi dell’Europa meridionale, dove il livello di formazione è medio-basso, come in Italia, dove il 53% dei residenti hanno completato solo la scuola elementare a fronte di un 12% che hanno concluso l’università.
L’Italia, quindi, spicca tra i Paesi che hanno la più bassa percentuale di “nativi” (così vengono definiti nella ricerca) con istruzione terziaria e infatti accoglie meno immigrati con istruzione terziaria: appena il 12%, contro un 47% che ha concluso studi primari.
Ma se a determinare la scelta di arrivare in Germania invece che in Spagna sarà il livello di istruzione della persona rispetto a quello del Paese, le possibilità di integrazione lavorative sono opposte. A maggiori competenze corrispondo infatti meno possibilità di lavorare per i non residenti rispetto ai nativi nei Paesi del nord. Diversa la situazione nei Paesi meridionali, nei quali si registra più richiesta di lavoro non qualificato e con bassa retribuzione, che porta ad un tasso di occupazione dei nativi basso (mentre quello dei migranti è più alto). “In Italia richiedono manodopera a basso costo non qualificata da fuori dal Paese, e perdono quella qualificata autoctona” spiega ad Altreconomia il professor Frattini.
La popolazione straniera in Italia è pari all’8,3%, e meno di un quarto risulta “occupato”. Il 34% svolge mansioni poco qualificati: i migranti occupano quei ruoli lavorativi che risultano sostenibili riducendo, ad esempio, gli interventi di prevenzione e sicurezza per le condizioni di lavoro.
Se ci concentriamo sui dati legati al genere, risulta che il 55% degli stranieri sono donne, le quali trovano impiego in lavori manuali o domestici, e andranno incontro ad assunzioni non regolari.
I dati Istat al 2014 dimostrano come quasi la metà degli incidenti in ambito domestico riguardi mansioni svolte da donne, ma che questi non vengano inseriti nei rilevamenti sui rischi e gli incidenti per i lavori manuali. La colpa di questa situazione potrebbe annidarsi in un problema strutturale del sistema del lavoro ma “non sappiamo se siano i ‘nativi’ non disposti a fare quei lavori, i datori di lavoro a non assumerli, o che ciò sia dovuto al fatto che l’immigrato fa meglio alcuni tipi di lavoro” afferma Frattini.
Gli immigrati, nonostante abbiano caratteristiche sfavorevoli per il mercato del lavoro, come la poca conoscenza della lingua, hanno più possibilità di trovare lavoro. Questo è valido per l’Italia.
La Norvegia ha la più alta concentrazione di immigrati arrivati negli ultimi 5 anni, ma ciò dipende dal fatto che storicamente ha avuto bassi livelli di immigrazione. Per il Paese scandinavo, la metà dei nuovi arrivi degli ultimi 5 anni, che sono il 34% sul totale degli stranieri, sono provenienti da Paesi dell’Unione Europea. Questo è dovuto sempre al fenomeno della distribuzione della forza lavoro qualificata in relazione al Paese.
Molte persone sono state attirate per la domanda di forza lavoro altamente qualificata con la speranza di soddisfare le loro aspirazioni lavorative. Ne consegue che “il crescente interesse per l’immigrazione non è solo a causa della cosiddetta ‘crisi dei rifugiati’, che ha portato a un picco dei valichi non autorizzati alle frontiere europee, ma anche per l’aumento della mobilità all’interno dell’Ue” spiega la ricerca.
Seguono tra gli arrivi in Norvegia, Africa (19%), Paesi extra Ue (17%), Asia (15%) e America (10%).
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