Esteri / Attualità
In Medio Oriente, dove i confini non corrispondono più alla realtà
Alberto Negri, firma de “Il Sole 24 ore”, spiega: “Il processo di disgregazione dell’area, iniziato decenni fa, sta arrivando a compimento. La frammentazione è così profonda che ha portato alla separazione di intere popolazioni”
Quando un rifugiato incontrato a Damasco gli chiese attonito “Perché vai ad Aleppo?”, Alberto Negri -inviato speciale in Medio Oriente de Il Sole 24 Ore– rispose: “È lì che dobbiamo andare”. Era l’estate del 2016, quinto anno della guerra in Siria. Ed è da quella città “morta” che inizia il viaggio de “Il musulmano errante” (ed. Rosenberg&Sellier, 2017), il libro che Negri ha scritto per mettere insieme i pezzi della storia della setta religiosa degli alauiti. Lo sguardo dell’inviato è quello dell’esperto, di chi viaggia in Medio Oriente dal 1980.
Perché è andato ad Aleppo?
AN Aleppo e la sua cittadella sono stati uno dei punti fondamentali della mia ricerca. Su questa rocca che domina la città, una rocca che ha oltre 1.200 anni di storia, c’è la tomba di Husayn al-Khasibi, il profeta dell’alauitismo. Questa setta sarebbe probabilmente scomparsa come tante altre di quell’epoca se al-Khasibi, erede dei princìpi del fondatore Muhammad Ibn Nusayr e originario dell’Iraq, non l’avesse ripresa, custodita, riportata, ampliata e scritta nei suoi numerosi libri. Finì i suoi giorni su questa rocca di Aleppo, nel 969, dove venne accolto alla corte del principe e dove iniziò a fare proseliti. Quando morì, ultracentenario, i suoi allievi uscirono a vedere se la sua anima fosse diventata una stella della Via Lattea. Ecco, la sua tomba era sulla cittadella di Aleppo, senza iscrizioni, difficile da rintracciare. Mi recai lì, anche durante la guerra, nel 2012 e poi nel 2016, per cercare dove fosse stato sepolto. Intorno erano cominciati i combattimenti feroci tra l’esercito del regime di al-Asad e i ribelli. Sotto il fuoco incrociato dei due fronti ero salito su questa rocca per cercare la tomba di al-Khasibi. Sei anni dopo l’inizio della guerra, la Siria ci appare ancora più distrutta. Salendo su quella rocca, un anno fa, potevo purtroppo guardare il panorama sconsolante di una città dove il Gran bazar era stato distrutto, dove era stata distrutta la Moschea degli Omayyadi, dove erano state distrutte le case che per oltre mille anni avevano ospitato la popolazione di Aleppo.
A che punto è la guerra in Siria?
AN La svolta fondamentale di questo conflitto è stato l’intervento della Russia il 30 settembre 2015 a favore di Bashar al-Asad, sostenuto dall’Iran e dagli Hezbollah sciiti libanesi. La soluzione individuata oggi è assai dolorosa perché implica spostamenti interi di popolazione, ed è quello che sta avvenendo proprio adesso nelle province di Idlib nel Sud del Paese. E gli ultimi accordi tra Turchia, Russia e Iran prevedono la creazione di quattro zone di sicurezza -una a Idlib, una ad Aleppo, un’altra alla periferia di Damasco e la quarta intorno ad Haraa- per dividere sciiti e sunniti e coloro che un tempo vivevano insieme.
Per quale motivo ha ricostruito la storia degli alauiti?
AN È un interesse che ho coltivato per molto tempo. Il mio primo viaggio in Medio Oriente è stato nel 1980. Andai in Turchia, in Iran, in Siria. Gli alauiti erano arrivati al potere negli anni Settanta. All’epoca se ne sapeva assai poco. Si tratta dell’unica minoranza rimasta al potere in Medio Oriente in questi anni dopo la caduta del regime sunnita di Saddam Hussein in Iraq.
Quali sono i confini geopolitici e culturali del Medio Oriente di oggi?
AN Se noi guardiamo la mappa attuale del Medio Oriente in realtà ci appare una fiction. I confini degli Stati, per come sono disegnati, non corrispondono quasi più alla realtà. L’Iraq è un Paese diviso in tre, quattro parti differenti. La Siria pure. Ci troviamo di fronte a un Medio Oriente dove le mappe politiche non rappresentano più la realtà dei Paesi che ci sono scritti sopra. È un processo di disgregazione che è iniziato decenni fa e che è arrivato a compimento nei primi anni Duemila con l’attacco americano all’Iraq e poi il tentativo dei Paesi sunniti -attraverso i jihadisti- di destabilizzare la Siria e abbattere Bashar al-Asad. E questo è il livello geopolitico cui si cerca di porre riparo e rimedio, anche in maniera effimera, con gli accordi di cui parlavo prima.
E poi c’è il livello culturale e sociale.
AN La frammentazione è così profonda che ha portato alla separazione di intere popolazioni. I curdi, i sunniti, gli sciiti. A Baghdad c’erano 80 chiese cristiane alla vigilia della guerra del 2003. Oggi non c’è più nemmeno un cristiano. Erano un milione e duecentomila persone e oggi sono rimasti 200mila concentrati tutti a Nord, in Kurdistan. O gli yazidi, antica setta religiosa costretta ad abbandonare città e villaggi perché perseguitata dall’Isis. La Siria è un altro esempio lacerante di tutto questo. Ma se la ricostruzione materiale è possibile, quella di una fabbrica sociale -come era di Aleppo, dove vivevano insieme sunniti, sciiti, alauiti, cristiani- è probabilmente impossibile. E quindi rimane la memoria di un Medio Oriente che è stato completamente distrutto, incendiato, frammentato. Di una società che ha perso la sua capacità di vivere insieme, la sua ricchezza. Ognuno di questi frammenti, di qualunque genere, quando è costretto a staccarsi dal suo luogo originario, costituisce una perdita. Ed è una perdita incommensurabile.
Quali sono le responsabilità occidentali in questo processo di disgregazione?
AN Credo che l’Occidente e gli Stati Uniti abbiano grandissime responsabilità. Innanzitutto di natura storica, legata al periodo della colonizzazione dell’area all’indomani della fine dell’Impero Ottomano per mano di inglesi e francesi. Una spartizione che ha portato alla costituzione di Stati molto spesso artificiali e alla divisione delle popolazioni. Poi, dopo la Seconda guerra mondiale, quando gli Stati colonizzati sono diventati via via indipendenti, in realtà gli occidentali hanno sempre cercato di utilizzarli per motivi economici e strategici. Fino ad arrivare a quest’ultimo decennio, in cui gli americani hanno pensato di rifare la mappa del Medio Oriente. Penso all’Iraq, un Paese che non è stato più rimesso insieme o ricostruito. O alla Siria, dove l’ex segretario di Stato degli Stati Uniti, Hillary Clinton, in accordo con la Turchia, l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo, ha pensato di abbattere il regime di al-Asad guidando da dietro, muovendosi attraverso i jihadisti. Sono stati errori di calcolo di dimensioni epocali.
Ha scritto che è un’illusione pensare di sconfiggere il sedicente Stato Islamico sul solo piano militare. Che cosa intende?
AN Facciamo un salto indietro di quarant’anni e immaginiamo quella che è stata la sorte dei mujhaiddin afghani che vennero utilizzati per sconfiggere l’Armata rossa sovietica. Quegli stessi mujhaiddin che venivano acclamati come i nostri eroi e che poi sono diventati i jihadisti e i “barbari” dei nostri giorni. Molto spesso ci illudiamo di poter governare dei fenomeni che sono molto più profondi o addirittura ingovernabili. Le profonde distruzioni che sono state fatte anche dal punto di vista culturale dentro queste società mediorientali hanno prodotto purtroppo una destrutturazione di intere generazioni. Sono quelle che sono state private della possibilità di studiare, di avere una vita normale e che quindi sono diventate preda anche delle suggestioni e della propaganda del jihadismo. È chiaro che questi fattori sono destinati a rimanere a lungo, come a lungo resterà fertile il terreno di una propaganda radicale.
Citando Oliver Roy, ha sostenuto che gli estremisti raccolgano i frutti di una “islamizzazione dell’antagonismo”. Perché?
AN L’islamismo è servito come paravento ideologico per dare sfogo alle enormi frustrazioni dei giovani musulmani. Non abbiamo a che fare con studiosi dell’Islam o con autentici portabandiera dell’Islam del VII secolo che si vorrebbe restaurare. Sono persone che hanno trovato nel jihadismo e nell’islamismo radicale una via per sfogarsi, un tentativo disperato di abbattere i regimi dove vivevano o di rifiutare il modello di integrazione delle società occidentali.
Credo che l’Occidente abbia grandissime responsabilità, fino all’ultimo decennio. Sono stati fatti errori di calcolo di dimensioni epocali
In questo scenario frammentato si inserisce Donald Trump. Con quali scelte politiche?
AN La politica estera di Donald Trump è molto contraddittoria rispetto alle sue dichiarazioni iniziali. Durante la campagna elettorale disse che bisognava mettersi d’accordo con Mosca, che al-Asad in Siria avrebbe potuto rimanere in quanto oppositore dell’estremismo islamico dell’Isis. Quando è arrivato alla Casa Bianca gli è stato presentato un menù diverso da parte del Pentagono e dal Dipartimento di Stato. Da due generali, in particolare. Il segretario alla Difesa, Jim Mattis, e dal capo della sicurezza nazionale, Herbert Raymond McMaster. Entrambi hanno combattuto sia in Afghanistan sia in Iraq, e hanno rimesso Trump nella vecchia linea della politica estera americana, che in Medio Oriente non deflette da quelli che sono i suoi principali pilastri: da una parte l’Arabia Saudita, per quanto riguarda il mondo sunnita, e dall’altra Israele. E non è un caso che il primo viaggio di Trump è avvenuto a metà maggio in Arabia Saudita, dove il presidente americano è giunto il 19 maggio, lo stesso giorno delle elezioni presidenziali in Iran -fatto significativo e simbolico-, e poi in Israele, prima del G7 in Europa, del summit della NATO e della visita dal Papa. Il modello è conosciuto ed è ricalcato fedelmente da Trump, nonostante le cose diverse affermate in campagna elettorale.
Com’è cambiato il mestiere dell’inviato di guerra in questi anni?
AN Come dicevo, sono andato la prima volta in Medio Oriente, in Iran, nel 1980, dove sono tornato per le elezioni presidenziali del 19 maggio. 37 anni sono un’era geologica per qualunque professione, per il giornalismo in particolare. È cambiato tutto. Negli anni Ottanta quando scrivevo un articolo dal Medio Oriente mi sembrava di informare il mondo. Eravamo pochi giornali, le televisioni erano pochissime, non c’erano dirette. Poi nel 1991 è successo qualcosa che ha cambiato tutto, anche dal punto di vista dell’informazione. Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio la CNN diede per la prima volta in diretta un bombardamento, che era quello americano su Baghdad, in Iraq. “The sky over Baghdad has been illuminated”, cominciava così quella famosa cronaca. Era la prima in cui il mondo viveva la guerra in diretta. E da allora, con la moltiplicazione dei mezzi tecnologici, è chiaro che il mondo dell’informazione è completamente mutato. Con il rischio però che all’immediatezza della diffusione non corrisponda alcun controllo sulla qualità delle fonti. Ma noi possiamo però reagire facendo bene il nostro mestiere. Le fake news o le post-verità non esistono. Esistono solo le notizie false e la pigrizia di non volerle controllare.
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