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Diritti / Opinioni

L’ultimo stadio del razzismo

L’indignazione seguita all’episodio che ha coinvolto il calciatore del Milan Boateng a Busto Arsizio deve sapersi trasformare in prassi e politiche, per costruire una nuova cultura antirazzista
a partire dagli spalti

Tratto da Altreconomia 146 — Febbraio 2013

È stata l’azione più emozionante della stagione calcistica. Stadio di Busto Arsizio (Va), amichevole fra la formazione locale, la Pro Patria, e il Milan. Dopo 26 minuti di gioco, il numero 10 del Milan, Kevin Prince Boateng, di nazionalità ghanese,  interrompe il dribbling che sta affrontando, raccoglie il pallone con le mani e lo scaglia verso un gruppo di tifosi, impegnato fin dall’inizio della partita ad insultarlo con quei “buuu” che per molte tifoserie sono lo slogan razzista preferito, da rivolgere a calciatori di pelle nera.
Boateng, il 3 gennaio 2012, ha rotto gli schemi: non ha sopportato in silenzio, non ha minimizzato, non ha pensato che la cosa più importante è garantire lo spettacolo. Una volta scagliato il pallone sugli spalti, si è diretto verso gli spogliatoi, prontamente seguito dai suoi compagni di squadra. La partita è finita lì. Interrotta per razzismo. Potremmo dire finalmente, perché il razzismo negli stadi è stato fin troppo tollerato in questi anni.
Boateng non è il primo calciatore famoso a reagire platealmente ai cori razzisti. Alcuni ricorderanno l’ivoriano del Messina Marco André Zoro, che nel novembre 2005 fermò il gioco e minacciò di lasciare il campo, stanco degli insulti dei “suoi” tifosi. Le cronache raccontano che i calciatori avversari -il Messina giocava contro l’Inter- lo convinsero a proseguire la partita. Boateng non ha imitato Zoro e ha creato un caso. La giustizia sportiva nei giorni seguenti ha “assolto” il calciatore, evitando di infliggergli squalifiche o multe per la colpa di avere interrotto la partita, e il tema del razzismo nel calcio (e nella società) è tornato per qualche giorno alla ribalta.
In realtà Boateng ha rotto solo in parte lo schema classico di situazioni simili. Basti pensare alla reazione del sindaco di Busto Arsizio, Gigi Farioli, presente allo stadio: “Boateng ha tirato il pallone a 200 all’ora su un tifoso -ha detto il sindaco-, e sappiamo tutti che un fallo di reazione di un professionista è sanzionato molto peggio rispetto a un fallo di gioco e che in qualunque altro stadio d’Italia sarebbe stato espulso. Ma se fosse stato al Bernabeu o a San Siro non avrebbe avuto questa reazione impropria”. Poi c’è stata la canonica minimizzazione: “È colpa soprattutto di quattro deficienti, magari anche di quattro professionisti che non hanno saputo fare il loro lavoro, intendo arbitro e alcuni giocatori”. Il mondo del calcio ha gravi responsabilità per il radicamento del razzismo e della xenofobia nella società italiana. Gli stadi sono stati una formidabile palestra per l’accettazione diffusa del discorso razzista, che s’è insinuato nella vita quotidiana degli italiani. Le stesse regole anti razzismo introdotte col tempo, fino alla facoltà attribuita all’arbitro di interrompere una partita, sono state più una bandiera da esibire nei dibattiti giornalistici che provvedimenti sinceri ed efficaci.
Basta pensare alla vicenda di Mario Balotelli. Figlio naturale di una coppia di cittadinanza ghanese, nato a Palermo e adottato da una famiglia bresciana, Balotelli è un autentico enfant prodige del pallone. Ma non ha potuto giocare nelle nazionali giovanili perché privo della cittadinanza italiana, ottenuta al compimento dei 18 anni, causa la retrograda legge sull’acquisizione della cittadinanza in vigore in Italia. Nel Paese in cui il calcio è metafora della vita e soprattutto della politica, il caso del campione cui viene impedito da una legge che discrimina di indossare la maglia azzurra non è mai divenuto materia di discussione pubblica. E lo stesso Balotelli nel corso della sua carriera è stato bersagliato di cori razzisti negli stadi di mezz’Italia, senza che ciò suscitasse particolare scandalo.
Oggi l’assurda legge sulla cittadinanza continua ad escludere moltissimi “nuovi italiani” dai diritti riconosciuti ai loro coetanei e i cori razzisti negli stadi sono proseguiti anche all’indomani del “caso Boateng” (la Lazio è stata multata -15 mila euro- per gli insulti al colombiano Ibarbo del Cagliari durante una partita giocata il 5 gennaio). Boateng a questo punto è l’uomo simbolo dell’antirazzismo nel calcio italiano. È stato invitato a intervenire alla Giornata internazionale per l’eliminazione delle discriminazioni razziali organizzata dall’Onu a Ginevra per il 21 marzo e il sindaco di Busto Arsizio sta pensando di assegnargli la cittadinanza onoraria. Basteranno questi gesti per avviare un’inversione di tendenza? L’esperienza insegna che l’antirazzismo nel calcio procede per fiammate: si accende all’indomani di fatti clamorosi per poi spegnersi rapidamente. A questo punto ci vorrebbe qualcosa di più dei gesti simbolici. Aspettiamo di assistere davvero alla sospensione di partite importanti causa razzismo, ma forse sarebbe l’ora di interventi in tackle sui decisori politici. —

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