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Diritti

Lockheed Martin e occupati dagli F-35: i conti non tornano

Uno studio pubblicato negli USA dimostra come la stime di ritorno occupazionale per il Joint Strike Fighter sarebbero state gonfiate. E rilancia le critiche ai dati utilizzati anche in Italia per giustificare questo acquisto miliardario.

Lockheed Martin ha probabilmente sovrastimato (raddoppiandoli!) i posti di lavoro generati dal programma Joint Strike Fighter di produzione dei cacciabombardieri F-35. E’ quanto emerge da un nuovo report (in allegato) diffuso dal Center per International Policy e redatto da William Hartung, uno dei maggiori esperti sul bilancio del Pentagono.

Secondo la ricerca i 125.000 posti di lavoro stimati dalla Lockheed Martin devono essere in realtà ridotti al massimo a 60.000, con una decurtazione del 50%. I numeri diffusi dall’azienda produttrice derivano da metodi standard di previsione del settore aeronautico. Ma un rapido sguardo in altri studi dello stesso campo mette in dubbio tale affermazione. "Il rapporto tra posti di lavoro diretti e i posti di lavoro totali del programma, nella stima Lockheed Martin, supera di gran lunga il rapporto suggerito da altri studi nel settore," ha sottolineato l’autore dello studio William D. Hartung.
 
Usualmente per stimare l’impatto occupazionale di una determinata forma di spesa pubblica si utilizza un’analisi input/output prendendo in considerazione sia i posti di lavoro diretti (nel caso F-35 ad esempio il montaggio), sia i posti di lavoro indiretti creati nelle aziende fornitrici di materiali e servizi ed infine i posti di lavoro indotti cioè quelli generati dal potere di spesa di chi riceve uno stipendio per le prime due situazioni (per esempio, i pranzi acquistati da chi costruisce il caccia). Nei numeri di Lockheed Martin le due ultime categorie sono associate nell’unica definizione di "indiretti".
Il rapporto proposto dalla capo-commessa del Joint Strike Fighter è di circa 3,85 mentre un lavoro dell’Università del Massachusetts del 2011 stabilisce che tale moltiplicatore deve attestarsi a circa 1,6 volte il numero dei posti di lavoro diretti. Anche uno studio della George Mason University finanziato dall’Aerospace Industries Association suggerisce un rapporto assolutamente inferiore rispetto alla cifra utilizzata da Lockheed Martin (e va notato come non si metta in nemmeno in questione a questo stadio la determinazione degli occupati diretti). Rivalutando la stima degli occupati generali con i parametri suggeriti dal lavoro di Robert Pollin e Heidi Garrett-Peltier ad UMass si ottiene perciò un totale tra i 50.000 e i 60.000 posti di lavoro
 
La ricerca prosegue poi analizzando la distribuzione territoriale della produzione, che si colloca in maniera rilevante anche al di fuori degli USA e quindi non giustifica per nulla l’alto moltiplicatore scelto dalle aziende produttrici. La quota di 125.000 finora considerata, uno dei punti principali su cui anche negli USA si è basata la campagna di supporto agli F-35, non è stata mai analizzata approfonditamente ed è sempre stata considerata realistica solo sulla base della "parola" di Lockheed Martin. E non è un caso che la "stragrande maggioranza" dei contributi elettorali da parte delle quattro principali aziende coinvolte nel programma JSF – Lockheed Martin, BAE Systems, Northrop Grumman e United Technologies – sia andata ai sostenitori del velivolo all’interno del Congresso.
 
In una nota di replica Lockheed Martin ha confermato di mantenere le proprie valutazioni sul ritorno occupazionale ma specificando, probabilmente per la prima volta, che la stima dei 125.000 occupati deriva da 32.500 lavoratori "diretti" e ben 92.500 lavoratori "indiretti" del programma. Queste nuove valutazioni e considerazioni possono ovviamente toccare l’Italia, dove quello del "ritorno occupazionale" è forse l’ultimo dei baluardi di giustificazione per il programma che ancora viene sbandierato dai fautori del JSF.
 
Eppure da tempo la campagna "Taglia le ali alle armi" ha dimostrato come i famosi 10.000 posti di lavoro (sogno favoloso la cui origine è già nei primi anni della partecipazione italiana) non siano per nulla realistici. 
Pur essendo iniziate le operazioni di assemblaggio dei primi esemplari, ancora oggi il livello occupazionale alla FACO di Cameri (NO) si attesta su poche centinaia  di unità confermando il sottoutilizzo di una struttura pensata per ben altri ritmi di produzione. La stessa industria (Finmeccanica) nel corso del tempo è passata da ipotesi di 3000/4000 addetti ad una più realistica di circa 2000, in linea con quanto sostenuto da sempre dagli stessi sindacati. E non si può sapere nemmeno se tali unità saranno impiegate pienamente o solo per porzioni di anni (e per quanti anni). Ricordiamo – per opportuno paragone – che in fase di picco la produzione del caccia Eurofighter per Alenia non ha raggiunto mai le 3000 unità ed è quindi falso affermare  che i 10.000 posti di lavoro previsti per gli F-35 possano derivare, a regime, da un completo spostamento di lavoratori Eurofighter.

Dopo le prime critiche documentate dagli ambienti della Difesa si è favoleggiato di arrivare al “numero magico” di 10.000 occupati considerando anche l’indotto (un po’ come fa Lockheed Martin). Ma anche tenendo per buone le 2500 unità di impiego diretto (tutte interne a Finmeccanica e in fase di picco) per arrivare al totale promesso le più o meno 50 ulteriori aziende coinvolte dovrebbero impiegare stabilmente sul programma ciascuna circa 150 persone: impossibile pensarlo per ditte che per la maggior parte sono piccole o medie imprese e considerando che nessuna di esse nelle dichiarazioni recenti ha diffuso una forza lavoro complessiva maggiore di 120 unità. Ciò significa che continuare a riproporre la “storiella” dei 10.000 occupati a questo punto non configura più solamente una mancanza di prudenza nelle stime, ma un vero e proprio tentativo di depistaggio. 
Lo studio rilanciato ieri negli USA fa poi la lista dei siti (36) e dei subcontractor italiani che partecipano coinvolti a vario titolo alla produzione degli F-35 come partner della capo-commessa Lockheed Martin.
 
Tutto questo detto, e ribadendo come la falsa stima rilanciata per anni dalla Difesa non abbia mai trovato giustificazione, sarebbe ancora più problematico e preoccupante che tale proiezione sopravvalutata fosse derivata da un accettazione passiva di un numero gonfiato da Lockheed Martin. E’ così che si deve muovere un Ministero della Difesa il cui compito è fare acquisti militari con il minor dispendio di fondi pubblici? Ci possiamo fidare di procedure pluriennali che impegnano miliardi di euro ma sono basate su premesse tanto fragili?

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