Economia / Opinioni
L’Italia è uno dei Paesi più tassati al mondo? Falso
L’Ocse ha fornito il dato sulla pressione fiscale che sarebbe pari al 42,9% del Pil, in crescita rispetto agli anni passati. Questo numero avrebbe però bisogno di essere correttamente interpretato: riguarda soggetti che pagano moltissime tasse e altri che non ne pagano affatto. L’analisi di Alessandro Volpi
Tre brevi considerazioni sul fisco italiano, rispetto al quale continua a mancare qualsiasi volontà di vera riforma. La prima riguarda a capacità, e la volontà, di leggere, bene, i numeri.
L’Ocse ha fornito il dato sulla pressione fiscale in Italia che sarebbe pari al 42,9% del Pil, dunque in crescita rispetto agli anni passati. Questo numero avrebbe però bisogno di essere correttamente interpretato. Quella percentuale infatti deriva da soggetti che pagano moltissime tasse e soggetti che non ne pagano affatto tra evasione (più alta di molti altri Paesi), elusione (più alta di molti altri Paesi), tasse piatte (cedolare sugli affitti, forfettario al 19% fino a 60mila euro etc.), aliquote molto basse sulle rendite finanziarie sia pur in regime di tassi negativi e vera e propria assenza di prelievo fiscale (imposta di successione, digital tax etc.).
Dunque indicare l’Italia come uno dei Paesi più tassati al mondo non significa nulla perché per alcuni contribuenti è un paradiso fiscale per altri un inferno. Quella percentuale del 42,9%, poi, sarebbe stata assai peggiore se, nel caso italiano, non ci fosse stata una spesa pubblica che ha consentito al Pil di non tracollare in modo ancora più grave di quanto non sia avvenuto. Magari se quella stessa spesa pubblica, insieme ad una vera riforma fiscale progressiva, venisse indirizzata a ridurre le disuguaglianze andrebbe tutto decisamente meglio.
La seconda considerazione è relativa all’ormai radicata, e pervicace, resistenza nei confronti di qualsiasi riflessione in materia di tasse. Provo a sintetizzare in maniera chiara cosa sta succedendo nel nostro Paese, partendo da un episodio specifico. Qualche giorno fa, in Consiglio dei ministri, il governo Draghi aveva presentato la proposta di introdurre un contributo di 300 milioni di euro da aggiungere al fondo da 2,5 miliardi per contenere gli effetti, soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione, del brusco aumento delle bollette.
Come sappiamo, infatti, l’inflazione, figlia della speculazione sull’energia, sta mordendo e diventa una tassa per i più poveri. Questi 300 milioni dovevano essere reperiti, ancora secondo la proposta Draghi, non applicando la riduzione fiscale prevista dalla riforma a coloro che hanno un reddito superiore ai 75mila euro. Per essere ancora più chiari; non è vero che i 300 milioni sarebbero stati coperti con un aumento delle tasse, ma solo non applicando, per un anno, ad una fascia di circa 1 milione di contribuenti, con un reddito superiore ai 75mila euro, una riduzione di tassazione.
Quindi senza alcun aumento fiscale si procedeva ad aiutare chi ne avrà più bisogno, peraltro con una cifra fin troppo contenuta. Purtroppo, di fronte a questa ipotesi, il Consiglio dei ministri si è spaccato e la proposta è stata ritirata.
Ormai, in Italia, non è neppure immaginabile il più banale intervento di giustizia sociale, neppure quando si tratta di non aumentare le tasse. Al di là del provvedimento in sé, il segnale è chiaro; la solidarietà non esiste e la nozione di cittadinanza pare ormai del tutto slegata da una visione comune del Paese. La terza considerazione ha a che fare con una constatazione che dovrebbe essere utile. Secondo i dati forniti in questi giorni dall’Ocse, nel 2022 il rapporto tra debito e Pil in Italia scenderà al 150,4% dal 154,6% del 2021. Nel 2023 calerà ancora fino al 148,6%. Questa maggiore sostenibilità del debito italiano sarà resa possibile, in primo luogo, dalla forte spesa pubblica del nostro Paese che, nel 2021 ha raggiunto il 54% del Pil, e da quella europea. In altre parole, una maggiore spesa pubblica consente una maggiore crescita del Pil che rende il debito sostenibile. Dunque, la spesa pubblica, a differenza di quanto pensano molti, permette di rendere il debito fisiologico. Il vero punto però è un altro; occorrono spesa pubblica, fisco e debito che riducano le disuguaglianze sociali. In caso contrario, la crescita del Pil è soltanto un dato numerico che nasconde profonde ingiustizie.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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