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Economia

L’esperimento è mal riuscito

Nonostante valide alternative, la ricerca sugli animali non conosce crisi. Un comparto mondiale che occupa 300mila persone

Tratto da Altreconomia 146 — Febbraio 2013

Nel novembre 2012 un docente di biologia di un istituto tecnico di Milano, è stato condannato a otto mesi per aver ucciso a martellate due conigli in classe. Il professore ne aveva fatti arrivare a scuola quattro. Due di questi, ancora vivi, erano usciti fuori dal contenitore. A quel punto il docente aveva prima cercato di strangolarli, quindi li aveva colpiti ripetutamente a pugni, per poi ucciderne uno a martellate in testa. Un episodio di bassa macelleria scoperto dalla Lav (Lega Anti Vivisezione) che, giudicando la condanna “un importante precedente giuridico in ambito didattico”, sottolinea però come quello attualmente in corso sia il nono anno scolastico senza che la legge 189, approvata dal Parlamento nel 2004 e concernente il divieto di maltrattamento di animali, venga applicata nelle sue parti inerenti la scuola. L’articolo 5 della legge recita infatti che lo Stato e le Regioni possano promuovere “l’integrazione dei programmi didattici delle scuole e degli istituti di ogni ordine e grado, ai fini di una effettiva educazione degli alunni in materia di etologia comportamentale degli animali e del loro rispetto”. Niente di tutto quello che era previsto è stato fatto.

Protocolli e legge.
Eppure l’educazione al rispetto per ogni forma di vita è prevista non solo dalla legge 189, ma anche dal protocollo firmato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e dalla Lav, rinnovato l’8 febbraio 2010: nell’accordo, il Miur “favorisce -nel rispetto dell’autonomia scolastica- la diffusione e l’approfondimento dei temi dell’educazione al rispetto di tutti gli esseri viventi nelle scuole di ogni ordine e grado”. Un impegno nella formazione degli studenti che si affianca a quanto previsto dalla legge 413/93, nella quale si specifica che “i medici, i ricercatori e il personale sanitario dei ruoli dei professionisti laureati, tecnici ed infermieristici, nonché gli studenti universitari interessati” hanno diritto a non prendere parte ad attività in cui è previsto l’uso della sperimentazione animale. Una legge fortemente voluta da Gianni Tamino, docente di biologia generale presso l’Università di Padova dal 1974, ex parlamentare italiano e presidente di Equivita, comitato scientifico antivivisezionista: “Presentai la proposta di legge nella legislatura 1987-1992 -ricorda Tamino- e venne approvata nella successiva legislatura, benché limitata e semplificata rispetto al progetto originale. Il problema è che quella legge non è mai stata applicata appieno” Una buona legge che deve però scontare la quasi totale mancanza d’informazione all’interno degli atenei italiani, come dimostra una ricerca del 2012 condotta dalla Fondazione Hans Ruesch per una Medicina Senza Vivisezione: “Solo una minoranza delle facoltà si conforma a un requisito minimo per il rispetto della legge 413, quello cioè dell’informazione”, dice Alessandra Chierici, presidente della Fondazione, mentre illustra i risultati dello studio dai quali emerge che il 68% degli atenei interpellati risulta carente sotto il profilo della pubblicità alla possibilità di obiettare. 
“È evidente l’oscuramento dell’informativa al diritto di obiezione e la mancata attivazione dell’uso di metodologie sostitutive” commenta Chierici.

Ricerca senza animali. Un muro che è stato recentemente scalfito dalla testimonianza della dottoressa Susanna Penco, ricercatrice presso l’Università di Genova e da sempre obiettrice di coscienza per due motivi: “perché non ho alcuna fiducia scientifica in tale pratica e perché provo un grande senso di pietà nei confronti di tutti gli animali, umani e non umani”. Testimonial di “Io dico no alla sperimentazione sugli animali”,  campagna promossa dalla Federazione Italiana Associazioni Diritti Animali e Ambiente, Susanna Penco ha deciso di raccontare la sua storia di ricercatrice, ma soprattutto di malata, da 18 anni, di sclerosi multipla: “La mia esperienza professionale inizia tanti anni fa, quando decisi, ancor prima di laurearmi, di dedicarmi alle colture cellulari come alternativa ad una ricerca da me ritenuta cruenta ed inutile. Fu così che divenni brava a coltivare cellule esclusivamente ‘in vitro’ e, da anni, esclusivamente umane”. Una strada che, secondo la ricercatrice, sarebbe foriera di importanti risultati applicabili all’uomo se solo fosse adeguatamente finanziata, mentre la tendenza è quella di fossilizzarsi sulla sperimentazione animale, con risultati molto discutibili dal punto di vista scientifico. Per questa ragione Susanna Penco ha deciso di proporsi come cavia, fornire cioè alla scienza il suo corpo di malata affinché venga studiato e monitorato e possa fornire risultati immediatamente disponibili ed applicabili al vero bersaglio della ricerca, cioè la nostra specie. Inoltre ha provveduto, con scrittura olografa, a donare il suo cervello alla scienza: “Ritengo che la causa della sclerosi multipla possa essere identificata e dunque, guarita, proprio nel cervello dei malati”.

Il caso di Trieste.
Una ricerca che però prosegue sui binari classici della sperimentazione animale: a Trieste, ad esempio, continuano i lavori della contestata ristrutturazione, annunciata a inizio 2012, dello stabulario universitario, il laboratorio dove vengono allevati gli animali da esperimento, centinaia di conigli, ratti, topi, pulcini, cavie e rospi africani che vengono utilizzati da professori e ricercatori di 12 diversi dipartimenti dell’ateneo giuliano. Nonostante l’opposizione del Comune e della cittadinanza, “al momento è stata ristrutturata una prima stanza e stiamo aspettando gli arredi, cioè dove gli animali saranno alloggiati, per vedere se il progetto e le soluzioni adottate sono confacenti alle esigenze di miglioramento che ci siamo dati”, dichiara il prof. Pier Paolo Battaglini, direttore scientifico dello stabulario. Per il progetto l’università ha previsto uno stanziamento di 459 mila euro: 72mila sono fondi ministeriali, 386mila arrivano invece dalla Regione, la stessa che nel 2010 ha promulgato una legge che promuoveva “la tutela degli animali favorendo la diffusione di metodologie innovative, da utilizzare a fini sperimentali o ad altri fini scientifici e didattici, che non facciano ricorso all’uso di animali vivi”. Una legge presentata come innovativa e all’avanguardia e che nei suoi quattro articoli prevedeva accordi con le università e gli enti di ricerca per favorire, appunto, metodi alternativi che la Regione avrebbe finanziato fino al 90%. Doveva essere una legge pilota per l’Italia, ma non ha trovato applicazione e, così, agli studenti viene ancora insegnato un unico modello di studio, quello cioè che fa ricorso alla sperimentazione animale.

867mila all’anno. “C’è un grosso muro culturale e cospicui interessi economici che assicurano la continuazione di questo modello di studio” -dice Michela Kuan, biologa e responsabile del settore vivisezione della Lav-.
Ed è così che si alimenta il grande business legato alla sperimentazione animale, un giro d’affari su cui non esistono cifre ufficiali in quanto molti dati non sono conosciuti o pubblicati, mentre quelli sui numeri di animali ed esperimenti effettuati nell’Unione Europea vengono pubblicati ogni due anni e si riferiscono ad almeno due anni prima.
La dottoressa Candida Nastrucci, biochimico clinico dottorato University of Oxford, membro di EUSAAT (European Society for Alternatives to Animal Testing) e docente presso l’Università di Roma Tor Vergata,  specifica che in uno studio (Bottini & Hartung, 2009) pubblicato sulla rivista Altex (Alternatives to Animal Experimentation), sono stati analizzati soltanto i dati disponibili pubblicati dall’Unione Europea nel 2007 (relativi all’anno 2005), ma dai quali si può intuire il colossale giro d’affari, se si pensa che solo in tossicologia, in cui veniva impiegato l’8% degli animali, vi è un costo stimato di 620 milioni di euro l’anno nell’Unione Europea, con una stimata spesa mondiale soltanto per test tossicologici di 2-2,5 miliardi di euro. Si intuisce l’enorme spesa europea e mondiale se si dovesse considerare il 100% del totale degli animali utilizzati.
«Nell’ultima Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo -aggiunge Nastrucci- pubblicato nel 2010 e relativo al 2008 il numero di animali usati negli esperimenti in tossicologia è aumentato fino a 1.042.153,  rappresentando solo l’8,7% del totale degli animali utilizzati a fini sperimentali nell’Unione Europea».
Un’altra fetta di questo mercato è data dalle compagnie che allevano animali per la sperimentazione, che li forniscono già geneticamente modificati su richiesta, un’ industria con 4,1 miliardi di euro all’anno di vendita in totale; infine si è stimato che negli esperimenti su animali siano coinvolte almeno 60.000 persone in Europa e 300.000 nel mondo.
Numeri molto minori in Italia, che può comunque contare su 600 strutture, tra laboratori privati e universitari. Queste stanze accolgono ogni anno una media di 867.890 animali: i dati provengono dal Ministero della Salute e si riferiscono alle autorizzazioni che lo stesso ha emesso nel triennio 2007-2009 e registrano un sensibile aumento rispetto al 2004-2006. “Il problema è che l’80% delle autorizzazioni avviene con il metodo del silenzio -assenso da parte del Ministero- sottolinea Michela Kuan- questo significa che non c’è alcun controllo da parte di chi invece dovrebbe vigilare”.
I dati forniti dal Ministero, inoltre, sono sottostimati perché nelle statistiche non rientrano invertebrati, embrioni, feti e animali utilizzati già soppressi. Se possibile ancora più allarmanti sono i dati relativi alle autorizzazioni in deroga, quelle cioè che vengono concesse per procedure particolari legate a utilizzo di specie straordinarie, come cani, gatti e primati non umani, o per l’utilizzo in didattica o, ancora, per l’ utilizzo per sperimentazioni senza anestesia in cui l’animale rimane vigile e viene sottoposto, tra gli altri, ad esperimenti sul dolore, impianti sul cervello e trapianti di organi.
Questo tipo di autorizzazioni sono passate da 128 nel 2007, a 204 nel 2008 e 203 nel 2009.

Alternative per la didattica.
Eppure i metodi alternativi, quelli cioè che non prevedono l’utilizzo di animali nella sperimentazione, ci sono: per quanto riguarda la didattica sono a disposizione simulatori computerizzati, filmati ad alta precisione, manichini che riproducono in toto il funzionamento dell’organismo umano e animale e molti altri dispostivi che dimostrano come il ricorso ad animali sia non solo eticamente discutibile, ma soprattutto poco utile ai fini dell’insegnamento.
Per quanto riguarda la ricerca, invece, il problema è molto più complesso, come spiega Gianni Tamino: “La critica al modello animale per campi come medicina, farmacologia e biologia non è solo di carattere etico, ma anche scientifico: la corrispondenza tra i dati ottenuti sugli animali e quelli relativi all’uomo è del 50%. È come se lanciassi una monetina”.

Alternative nella ricerca. Come risolvere il problema? Come ha dimostrato Susanna Penco, con le moderne tecniche, l’avvento di attrezzature d’avanguardia e, soprattutto, con adeguati finanziamenti, si possono condurre ricerche innovative senza ricorrere agli animali. “I metodi alternativi -spiega la dottoressa Candida Nastrucci- si possono applicare a diversi ambiti scientifici, come la ricerca di base, la ricerca farmacologica, la ricerca sui vaccini, la tossicologia, la cosmetica e la didattica”. Queste alternative hanno una validità scientifica provata: quelle coinvolte nell’ambito regolatorio (farmaci, vaccini, tossine alimentari etc.) richiedono una validazione da parte dell’EURL ECVAM (The European Reference Laboratory on Alternatives to Animal Testing). Sono molti gli esempi che Nastrucci cita a riguardo: con la decisione della Commissione Europea del 10 gennaio 2011, ad esempio, il test biologico sui topi usato per rilevare biotossine marine, responsabili della Sindrome Diarroica da Molluschi Bivalvi (DSP) sarà sostituito, entro il 31 dicembre 2014, da un test chimico che garantirà una maggiore sicurezza per gli esseri umani e l’eliminazione completa dell’utilizzo di animali. La Commissione ritiene che l’applicazione di questo test alternativo risparmierà la vita a circa 300.000 topi all’anno solo in Europa e solo per il test DSP.
“Molto importante -aggiunge Nastrucci- sia sotto l’aspetto scientifico che etico, è l’uso di alternative al Siero Bovino Fetale usato nelle culture cellulari: ci sono forti obiezioni sui metodi di estrazione del siero fetale che viene effettuata con il pungolamento cardiaco con sanguinamento fino alla morte senza anestesia, quando l’animale è ancora pienamente cosciente. A livello scientifico  la composizione di questo siero animale non è ben definita chimicamente, è soggetta ad alterazioni, può essere contaminata da patogeni e anticorpi che interferiscono con i risultati degli esperimenti, e varia a seconda dei singoli animali. Alcune aziende  producono alternative di origine non animale già ottimizzate per le varie linee cellulari, ma sono ancora poco usate perché poco conosciute, pur garantendo la qualità del prodotto e l’invariabilità dei componenti (www.goodcellculture.org)”. Avveniristico è poi il progetto The Virtual Liver Network (Il network del Fegato Virtuale), un programma di cinque anni finanziato con 43 milioni di euro dal Ministero dell’Educazione e Ricerca Tedesco, “il primo programma europeo di questo tipo, che coinvolge una intera nazione, include 69 gruppi di ricerca e oltre 200 ricercatori”, il cui scopo è quello di creare una rappresentazione virtuale del fegato umano così da poter effettuare predizioni realistiche sul suo funzionamento. Una predizione degli effetti tossici di un farmaco sul fegato umano può avere un impatto sull’economia e i servizi sanitari nazionali e «può cambiare il modo in cui disegniamo gli esperimenti di ricerca e renderli più efficaci ed efficienti perché specifici per l’uomo» aggiunge Nastrucci.
 
Interessi economici. Il rapporto 2007 del Consiglio Nazionale delle Ricerche statunitense Toxicity testing in the 21st Century: a vision and a strategy ha decretato inattendibile l’animale come modello per la salute umana. Migliaia di scienziati nel mondo sostengono da decenni  metodologie sostitutive del modello animale. Perché allora non vengono applicate? “È evidente che ci sono diversi motivi, ad esempio economici: c’è un’industria intorno alla sperimentazione su animali, già organizzata ed integrata all’interno di istituti di ricerca sia pubblici che privati, società farmaceutiche, allevamenti”. Inoltre esistono motivi legali in quanto gli organi regolatori impongono test su animali per determinare la sicurezza sull’uomo di farmaci destinati al mercato, in modo che le compagnie farmaceutiche non siano sanzionabili o responsabili penalmente per eventuali danni all’uomo, in quanto esse si sono attenute a leggi in vigore.
“Lo sviluppo e l’uso di metodi alternativi che usano cellule o campioni umani -conclude Nastrucci- forniranno un’accuratezza dei risultati applicabili direttamente alla specie umana e assicureranno un’ottimizzazione delle risorse, che eviterà, per esempio, di scartare farmaci specifici per l’uomo che non avevano gli stessi effetti nelle altre specie animali testate, di effettuare esperimenti riproducibili usando condizioni accuratamente misurabili e controllabili  e di ottenere risultati quantificabili e specifici per la specie umana, e a tutto questo si accompagnerà un enorme risparmio di risorse economiche”.
Il 28 ottobre scorso il Ministero della Salute ha annunciato ufficialmente il divieto assoluto di utilizzo di animali randagi per la vivisezione: un piccolo passo in avanti che però non basta se poi succede che il progetto della dottoressa Nastrucci con l’Università di Tor Vergata, “Course on Innovative Strategies and Alternative Methods to Animal Experiments”, che ha come scopo proprio la creazione di un corso sulle Alternative a livello universitario, rimane bloccato per un taglio dei finanziamenti da parte del Ministero della Salute. Nonostante i promotori si siano dichiarati disposti a farlo comunque, mantenendo tutti i contenuti e i programmi originari e riducendo solo compensi dei docenti e costi di spesa, il Ministero ha imposto all’Università di trovare i 65mila euro di differenza. Una situazione assurda che Candida Nastrucci spera possa sbloccarsi in modo positivo così da assicurare un’adeguata formazione agli studenti e ricercatori del futuro. —

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