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L’economia del magazzino

Mentre la produzione industriale italiana cala (-5,2% in un anno), aumenta il valore della logistica. La tutela dei diritti dei lavoratori però è a rischio. Tanto che, dopo la prima grande mobilitazione dello scorso 22 marzo, gli operatori del settore scioperano nuovamente, il 15 maggio

Tratto da Altreconomia 149 — Maggio 2013

È lungo, il viaggio di Billy. Prodotta in Cina, Russia, Germania, Canada e Svezia, la libreria più famosa del mondo arriva -a pezzi imballati- nella periferia di Piacenza, a bordo di grossi tir. Là, infatti, si trova il deposito Ikea più grande dell’Europa meridionale: due enormi stabilimenti blu di acciaio e cemento per 280mila metri quadri di superficie. Uno spazio pari a 39 campi da calcio, dove lavorano 620 operai (di cui 351 in cooperativa) che caricano e scaricano bancali tutto il giorno. Sono loro -i facchini- che per primi smistano tonnellate di Billy, etichettate e ricomposte per raggiungere i punti vendita in Italia, Svizzera, Austria, Grecia, Cipro, Turchia e Israele. E sono sempre loro, i nuovi protagonisti di aspre vertenze sindacali italiane.
Se un tempo i lavoratori si concentravano nei distretti manifatturieri, dove la merce veniva prodotta, oggi lo scenario si è spostato nelle cinture logistiche, dove la merce viene stoccata, impacchettata e rispedita. È qui che si trova la nuova “classe operaia”, in parte di origine straniera.

Secondo Confetra (la sigla di Confindustria che raccoglie le imprese del trasporto, della spedizione, della logistica e del deposito delle merci) nel 2012 gli addetti del settore logistico erano 460mila, per circa 100mila imprese attive (gran parte delle quali sono ditte individuali di autotrasportatori, da cui il rapporto di 4 addetti per impresa).
In effetti, il comparto mostra un certo “peso” sul Pil italiano. Secondo il rapporto “Outsourcing della logistica: le potenzialità di crescita e innovazione” presentato nel novembre 2012 dall’Osservatorio Contract Logistics del Politecnico di Milano, nel 2010 il fatturato della logistica conto terzi in Italia è stato di 73,7 miliardi di euro, circa il 4,2% del Pil (percentuale che con il costo delle scorte sale all’11%); un valore cresciuto rispetto al 2009, e che conferma un trend positivo. La crisi si è fatta sentire, e lo scorso anno la circolazione delle merci ha subìto una battuta d’arresto. Ciononostante, gli investimenti nel settore restano importanti, soprattutto se paragonati alla produzione industriale, retrocessa ai livelli del 1990. “Rispetto al settore manifatturiero la logistica sta tenendo, e lo stoccaggio cresce in tutta Europa”, spiega il professor Gino Marchet, responsabile scientifico dell’Osservatorio. “La produzione è stata delocalizzata, soprattutto in Asia; di qui, la necessità di assicurarsi grandi stock di merce sul territorio europeo, dove ancora si concentrano i consumi”. Esemplare, da questo punto di vista, è proprio Ikea, il cui deposito piacentino, costruito e ampliato tra il 2001 e il 2007 è di proprietà della stessa multinazionale.

“Il grande boom della logistica è avvenuto dieci anni fa, anche da un punto di vista immobiliare”, racconta Marchet. “C’è stato un grande investimento sui magazzini, da parte di chi aveva il capitale; per questo, oggi ne vediamo così tanti”.
Piacenza ha approfittato in pieno del “boom logistico”: posta su un vero e proprio crocevia del trasporto ferroviario, marittimo e autostradale (qui si incrociano l’A1 e l’A21), la città emiliana si è trasformata in pochi anni in uno snodo strategico del trasporto merci. Una trasformazione voluta anche dalle amministrazioni comunali, che già nel 1997, attraverso il primo PIP (Piano insediamenti produttivi), mettevano in vendita 770mila metri quadri di territorio, destinandoli ad attività logistica. Oggi, quel territorio si è allargato fino a raggiungere la dimensione di 2 milioni e 450mila metri quadri -quasi il 2% dell’intero comune- senza contare gli altri centri logistici della provincia (Cortemaggiore, Fiorenzuola, Pontenure, Monticelli e Castel San Giovanni), che portano il sistema a coprire un’area di 5 milioni di metri quadri.
È nel polo di Piacenza, infatti, che Generali Real Estate ha acquistato ed edificato depositi per oltre 250mila metri quadri, con ulteriori 230mila in previsione. Un investimento che la divisione immobiliare del colosso assicurativo (con un portafoglio immobili da 28 miliardi di euro) ha eseguito tra il 2004 e il 2006, riuscendo ad affittare circa 210mila metri quadri del totale. Operazione, questa, che nel 2006 poteva fruttare oltre 10 milioni e 500mila euro l’anno, visto che il prezzo di mercato per affittare un capannone a Piacenza era di 50 euro al metro quadro. Un canone che non deve spaventare, se rapportato all’espansione e all’esternalizzazione dei servizi logistici.
Tra il 2000 e il 2004, infatti, la logistica italiana ha registrato il più alto tasso di crescita in Europa: in particolare, lo sviluppo del settore ha fatto sì che nascessero nuovi operatori, che avevano proprio nei servizi logistici il loro core business. Mentre in passato le aziende produttrici organizzavano direttamente i loro magazzini (di cui erano anche proprietarie), oggi tendono ad affidarne la gestione a imprese esterne, che offrono servizi e personale a prezzi competitivi. “I committenti si aspettano soprattutto maggiore flessibilità dagli operatori logistici, perché la loro manodopera è di cooperativa”, spiega il professor Marchet. “Se in quindici giorni l’azienda committente ha un picco del 30% di merce in più da spedire, l’operatore logistico riesce a smaltirla, perché può chiamare oggi 120 facchini e domani 150, facendoli lavorare per le ore necessarie”. Le condizioni di lavoro sono il punto dolente del settore.
Nel polo logistico di Piacenza, ad esempio, operano poco più di mille imprese, per 6.387 addetti (il 6,5% del totale piacentino). Di questi, una parte sono dipendenti (per l’85% italiani e con diploma di scuola superiore), e risultano al 60% impiegati in attività d’ufficio. Al contrario, le percentuali cambiano non appena ci si avvicina al magazzino, dove le merci vengono caricate e scaricate. Qui, fra trasportatori e facchini, il 60% è di nazionalità extracomunitaria, e nell’80% dei casi il titolo di studio non supera la scuola media inferiore. I facchini, poi, sono il più delle volte soci di cooperative cui i committenti (ovvero le aziende produttrici) affidano la gestione dei magazzini.
Queste cooperative, spesso, trattano i loro soci -di solito migranti, privi di informazioni sui loro diritti- come dei collaboratori da chiamare a giornata, ora per ora, in base alle necessità.

È noto alle cronache proprio il magazzino Ikea, per restare a Piacenza, gestito in parte da dipendenti del colosso svedese, in parte dal consorzio di cooperative Cgs, per il quale lavorano 351 facchini (al 90% migranti). Cgs, nei mesi scorsi, è stata oggetto di una vertenza durissima, che ha visto i facchini organizzarsi sotto la bandiera di un giovane sindacato di base -il SI Cobas- per denunciare le paghe basse e per rivendicare il rispetto del contratto nazionale della logistica, cui tutte le cooperative del settore avrebbero dovuto adeguarsi dal 2006.
A fine ottobre anche la multinazionale è stata coinvolta nella vertenza: dopo il licenziamento di un delegato del SI Cobas, gli altri facchini della Cgs hanno bloccato l’ingresso e l’uscita delle merci, con l’aiuto di decine di colleghi del polo logistico. Il 2 novembre, poi, da un picchetto è nato un vero e proprio scontro con polizia e carabinieri, che ha prodotto 4 feriti in ospedale e altri fuori, che hanno rifiutato le cure nel timore di essere denunciati. In realtà, i facchini non avevano fatto altro che restare seduti davanti agli ingressi del deposito, per bloccare le merci; ciononostante, la polizia ha caricato con durezza, manganellando e lanciando addirittura lacrimogeni.

Ad oggi, su nove delegati rimasti fuori quattro hanno accettato una buonuscita, mentre gli altri sono stati reintegrati. Purtroppo, insieme alla vittoria sindacale sono arrivate anche quattro denunce dalla questura di Piacenza (che potrebbero trasformarsi in altrettante multe da 20mila euro ciascuna) e due fogli di via, recapitati a un paio di cittadini solidali presenti durante i picchetti.
La vertenza Ikea, però, non è stata l’unica nel polo logistico piacentino. La più famosa è forse quella riguardante i lavoratori che operavano per conto della Tnt, presente a Piacenza dal 2006 con un magazzino-hub di 22mila metri quadri. Nonostante le dimensioni, nel magazzino lavorano 27 dipendenti e un numero di soci di cooperativa variabile tra i 230 e i 330, disposti su tre turni, 24 ore su 24. Il contratto nazionale prevede 168 ore di lavoro mensili, ma il sistema era “a chiamata”.

“Ci eravamo già rivolti alle organizzazioni confederali, ma il risultato era stato pessimo. Loro andavano a raccontarlo al padrone, che per ritorsione ci lasciava a casa per un mese. Allora abbiamo deciso di essere noi stessi il nostro sindacato, e abbiamo creato un gruppo unito: egiziani, algerini, marocchini, albanesi, cinesi… tutti insieme. Abbiamo messo a disposizione il nostro tempo e siamo andati casa per casa, da ogni lavoratore, a spiegare quali fossero i loro diritti”, racconta un lavoratore, Arafat. “Certo, è stato difficile far capire cosa fosse un contratto, e quanto il padrone aveva rubato loro per anni… Alla fine, il gruppo si è allargato, e abbiamo deciso di organizzarci sotto la sigla del Si Cobas. Nel luglio 2010 abbiamo fatto il primo sciopero, duro. Finché, dopo un lungo confronto con relativi verbali, siamo riusciti a vincere la lotta”.
Lotta che ha contagiato anche altre realtà del polo logistico piacentino, e che oggi sta agitando l’intero comparto della logistica. Il primo sciopero generale del settore, infatti, si è tenuto proprio il 22 marzo scorso, organizzato dal Si Cobas e dall’Adl Cobas (vedi box) e deliberato dagli stessi lavoratori, durante una partecipata assemblea svoltasi contemporaneamente in 8 città italiane. In ballo, oltre alle condizioni di lavoro e alla rappresentanza,  c’è il rinnovo del contratto nazionale della logistica, scaduto a fine 2012. E forse -o soprattutto- ci sono i diritti di una classe operaia meticcia, che sta iniziando a rivendicare con forza i proprio diritti. A prescindere dai documenti e dal colore della pelle. —

Garanzie in movimento
Diritti sindacali, limiti certi alla pratica del subappalto, otto ore di lavoro, pagamento degli straordinari e della malattia. E poi infortuni, tredicesima, quattordicesima e Tfr. Compreso il riconoscimento delle festività e dei permessi. Questi gli ingredienti posti alla base della grande mobilitazione che il 22 marzo ha portato al primo sciopero nazionale di 24 ore dei lavoratori del settore della logistica. A indirlo, le due sigle sindacali SI Cobas e ADL Cobas, che hanno lanciato la sfida ai magazzini di Bartolini, Tnt, Dhl, Gls, Sda, Artoni, Esselunga, Ikea, Pam, Ceva, Billa e Coop. Al centro della protesta, l’uso distorto delle cooperative al fine di imporre bassi salari e orari proibitivi. I picchetti hanno avuto luogo di fronte ai cancelli delle principali centrali logistiche del Paese, concentrate in Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna. Non sono mancati episodi di violenza, come le cariche della Polizia di Stato dinanzi all’interporto Sda e Coop Centrale Adriatica, con inseguimenti lungo la via Emilia. Una condizione, quella sollevata dallo sciopero, che penalizza fortemente il comparto. Come ha scritto recentemente Sergio Bologna, membro del Comitato scientifico per l’elaborazione delle linee guida del Piano nazionale della logistica presso il ministero delle Infrastrutture fino al luglio 2012: “La logistica italiana non si svilupperà mai se gli operatori logistici invece di investire in sistemi informatici, magazzini automatici e rete continueranno a usare mano d’opera poco qualificata, in genere immigrati ricattabili, gestiti da cooperative che nascono e muoiono”. (Duccio Facchini)
 

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