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Diritti / Varie

Le vite sequestrate nell’assedio del Kashmir

Lungo la frontiera più militarizzata dell’Asia, dove la repressione dei separatisti da parte dell’India non conosce fine. Tra chi resiste a sparizioni forzate, il dramma delle “mezze vedove” e incarcerazioni

Tratto da Altreconomia 180 — Marzo 2016

Il confine con il Pakistan è dietro quelle colline coperte da un fitto bosco. Sono pendii dolci se paragonati alle funamboliche altitudini del Karakorum, non lontano da qui.

Percorro l’estremo nord del Kashmir, una sorta di cuspide dell’India incastrata tra il territorio pakistano e quello cinese. È la frontiera più militarizzata di tutta l’Asia. La strada tra i boschi all’improvviso attraversa un accampamento militare, alti muri ai lati della carreggiata, due curve, poi la strada taglia di sbieco un altipiano. Per raggiungere il piccolo villaggio di Shat Mukan si prende uno sterrato tra alberi di meli e campi. In una casa di legno su due piani incontro la signora Aisha. Mi ha accompagnato fin qui suo fratello. Entro in una stanza semplice e senza mobili. In un angolo, accovacciati, due vicini di casa. “Quando una donna è senza marito, noi musulmani abbiamo il dovere di aiutarla” dice il più anziano, sulla cinquantina. La aiutano dal 1997, quando il marito di questa signora uscì di casa e non vi fece mai più ritorno.
 
“Si chiamava Mohammed Yusuf Shah -racconta Aisha-. Lo hanno sequestrato in pieno giorno”. Dopo un mese di ricerche, le forze di sicurezza ammisero di averlo catturato, assicurando però che lo avrebbero rilasciato. “Ma da allora io non l’ho più rivisto”. Non è facile porre domande a questa donna dai lineamenti forti ma levigati. “Sono andata in tutti i tribunali e ai comandi dell’esercito. Da anni continuano a ripetere che l’hanno arrestato e poi rilasciato”. Aisha ha tre figlie. “Non ho nulla a parte loro”. La più giovane prepara la colazione per gli ospiti. “Quando mio marito venne arrestato, lei era ancora una neonata. Non l’ha mai conosciuto. Le altre due si ricordano solo il viso del papà”. Qui in Kashmir hanno inventato persino una nuova categoria per definire le donne come Aisha. Le chiamano “mezze vedove”: vivono da sole senza il marito, di cui però le autorità indiane non hanno mai riconosciuto la morte. Vedove a metà, sulla carta. Vedove del tutto, nella realtà quotidiana. “Le ho cresciute da sola. Mio fratello e i miei vicini mi danno una mano. Mi arrangio come posso”.
Mentre parliamo, arrivano alcuni militari indiani all’esterno della casa. All’improvviso si percepisce tensione. Il mio interprete, Danish, un giornalista di Srinagar, si spaventa. Siamo in una zona ad altissima presenza militare e i giornalisti -lui lo sa bene- non sono mai graditi da queste parti. Di nascosto da dietro una finestra sbirciamo una pattuglia di tre soldati a piedi. Si fermano. Poi proseguono. I vicini e il fratello della signora stemperano il clima in casa con qualche battuta. La figlia minore serve thè caldo e biscotti appena sfornati. L’allarme -questa volta- è rientrato.
 
Sulla via del ritorno, m’infilo tra le bancarelle del mercato di Kupwara. Un carosello di profumi, cumuli di cumino, mucchi di zafferano, e poi cavoli, uva e melograni. Sulla strada, un miscuglio di neve bagnata e fango. Le persone indossano scarpe sgualcite e inadatte, mocassini portati come ciabatte, calze di lana spessa ormai fradicie. Quasi tutti -senza dubbio- hanno le estremità fredde e bagnate. Provo quasi imbarazzo ad aggirarmi tra le bancarelle con i miei scarponcini verde acido di goretex, che ovviamente attirano l’attenzione.
Dopo un paio d’ore d’auto arrivo a Srinagar, principale città del Kashmir. Si snoda lungo il fiume Jehlun, attraversato da 9 ponti. Ecco il lago Dahl, specchio d’acqua dai riflessi d’argento dove si riverberano le splendide montagne che lo incoronano. Su un lato, sono attraccate decine di “house-boat”, piccole casette galleggianti di legno che d’estate si riempiono di turisti.
Le architetture coloniali di legno -in centro città- raccontano una storia di conquiste e dominazioni, dai regni buddhisti e hindu fino all’impero Mogul e all’annessione britannica poi. In periferia, invece, case basse e senza intonaco. In una di queste abita Parveena Ahangar
 
PARVEENA E I DESAPARECIDOS
Un foulard colorato avvolge ciocche ancora scure e scivola sulle spalle, un vestito color salvia fascia un corpo appesantito dagli anni.
“L’ultimo caso è stato nel gennaio 2014. Un uomo originario di Sopour, è stato rapito dalla task force speciale delle forze indiane. Aveva 31 anni, due figli piccoli. Non sappiamo cosa gli sia accaduto”. I casi come questo -mi spiega- sono stati circa 8-10mila in questi anni. Sono i desaparecidos del Kashmir. “Missing”. Semplicemente, scomparsi. Arrestati dalle forze di sicurezza indiane e poi spariti nel nulla. Proprio come l’ultima vittima, di cui mi sta parlando ora. E come il marito della signora Aisha, che abbiamo incontrato nel villaggio di Shat Mukan. Anche lei è sostenuta dall’associazione fondata da Parveena. Un coordinamento di famiglie degli scomparsi che segue circa un migliaio di casi. “Garantiamo assistenza legale con due avvocati, copriamo i costi della scuola per i figli delle ‘mezze vedove’ e distribuiamo medicine ad alcune famiglie”.
Parveena mi parla seduta per terra, sui tappeti del suo salotto. Sono l’unico arredamento. La stanza è vuota. Fa freddo. Mi porta una coperta e il kangri, piccolo cesto di vimini che contiene un po’ di brace.  “Crediamo nei tribunali e aspettiamo la giustizia. Ma è una farsa. Se ci si rivolge alla Commissione diritti umani, offrono 100.000 rupìe. In cambio ci dicono che la persona in questione è uscita di casa ed è scomparsa”.
L’equivalente di 1.300 euro per sentirsi dire che tuo marito è scomparso. O tuo figlio. Come nel caso di Parveena. Questa donna dal viso dolce è la più nota attivista dei diritti umani del Kashmir. È stata candidata al premio Nobel per la pace nel 2005. Ma è soprattutto una mamma che ha perso suo figlio.
È successo nel 1990, quando lui si trasferì da uno zio per studiare. Durante un blitz contro un indipendentista che abitava lì vicino, il ragazzo venne arrestato. Ma suo figlio non era un militante, assicura Parveena. “Ho pensato che lo avrebbero rilasciato. Ma non l’ho più rivisto”.
Il giorno dopo la scomparsa, andò dalla polizia. “Dissero che era ferito e ricoverato in un ospedale militare”, ricorda Parveena. Nel 1992 ammisero ufficialmente che era disperso. Da allora è tornata in tribunale decine di volte. Ma di suo figlio nessuna traccia. “La mia battaglia proseguirà. Lo faccio solo per le altre famiglie del Kashmir. Non abbiamo nemmeno una tomba su cui piangere i nostri cari”.
 
Nella sua lunga lotta silenziosa e coraggiosa Parveena non è sola. Anche l’avvocato Parvez Imroz è impegnato da anni per denunciare i soprusi e le violenze dei militari indiani in Kashmir. “Il livello della violenza è diminuito rispetto agli anni Novanta, ma le cose non si stanno affatto normalizzando”. Mi riceve nel suo studio. “È ancora in corso una repressione sistematica e istituzionale da parte del governo indiano”. Questo avvocato denuncia una sorta di impunità su moltissimi casi, anche vecchi di anni: stupri, omicidi, sequestri. “Qui ci sono 6-7mila componenti delle forze indiane che non possono essere processati grazie a una legge speciale”. Le proporzioni di questa tragedia sono enormi. “Abbiamo individuato fosse comuni con 8.000 morti. Sono persone scomparse, cioè sequestrate dalle agenzie di sicurezza indiane. E poi uccise e fatte sparire”. L’India viene spesso descritta come la più grande democrazia del mondo. Eppure il dissenso non viene tollerato facilmente. Il caso di questo attivista lo conferma. “Non ho il passaporto da 10 anni. Lo richiedo, ma me lo negano”. L’avvocato Imroz  è ben noto alle autorità indiane. “Abbiamo pubblicato un documento con i nomi dei responsabili delle violenze: circa 500 persone. Ma lo Stato è riluttante a punirli. Perché non vogliono colpevolizzare tutto l’esercito”. Anche perché la presenza armata indiana è enorme. 
 
Secondo alcune stime, quasi un milione di uomini tra militari, forze speciali e agenti. Ma le infiltrazioni dal confine continuano. “Il Pakistan le organizza da anni: addestra i militanti, fornisce armi e sostegno logistico”, dice l’avvocato. “Ma come abitante del Kashmir, dico che io non sono responsabile per la condotta del Pakistan”.
La presenza militare dell’India è ben visibile nelle strade di Srinagar. In città si vedono cavalli di Frisia ovunque, check-point dappertutto anche in centro, edifici pubblici circondati dal filo spinato. I posti di blocco creano lunghe file di auto. Diventa lento anche il viaggio a bordo del rikshaw, piccolo taxi a tre ruote. I militari sono ancora più numerosi davanti al quartier generale della polizia. Qui incontro il vice-ispettore generale Syed Afadul Mujtaba. “I soldati schierati al confine svolgono un ottimo lavoro. Ma qualcuno riesce a entrare e a mischiarsi alla popolazione locale, a volte creando problemi”, afferma l’ufficiale. “Poi ci sono i politici, ma io sono qui per parlare del mio lavoro” puntualizza. Ma il suo lavoro -gli faccio notare- lo ha portato spesso ad arrestare preventivamente questi leader separatisti. Lo considera legittimo? “Beh, vorremmo tenere fuori dalla circolazione tutte le persone che creano problemi e disturbo in città. È previsto dalla legge”.
Shabir Shah è stato tolto spesso dalla circolazione. Questo leader separatista è considerato il Nelson Mandela del Kashmir. È stato incarcerato moltissime volte, trascorrendo in tutto quasi 29 anni in prigione.
 
IL MANDELA DEL KASHMIR
“Da decenni ci negano il diritto all’autodeterminazione. Devono permetterci di svolgere questo referendum, qui in Kashmir”. 
Shabir Shah mi accoglie nella sua casa-ufficio. Mi offre un delizioso thè bollente allo zafferano. Il Kashmir non vorrebbe stare né con la federazione indiana né col Pakistan. In questa battaglia, gli chiedo, lei a un certo punto ha scelto la protesta non-violenta. Perché? “Sono stato in carcere quasi 30 anni. Nel 1988 abbiamo iniziato la rivolta armata perché non c’erano alternative”. Ma dopo l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001, qualcosa è cambiato: “Per farci sentire dentro e fuori l’India, erano meglio metodi pacifici. E così abbiamo iniziato la nostra battaglia non-violenta”.
Eppure il Kashmir è ancora un luogo violento. “È uno Stato di polizia. Tutto è sotto controllo. La prima cosa che vedi in strada sono i soldati indiani che puntano le armi contro te, la tua famiglia, i tuoi amici”. 
A parlare è il rapper 26enne Roushan Illahi, nome d’arte “Mc Kash”. Lo incontro al Caffè Coffee Day di Srinagar. La lotta contro l’occupazione indiana prende il ritmo hip-hop: “C’è qualcosa dentro che mi chiede di parlare per la mia gente, anche contro il potere. E so che le ripercussioni possono essere davvero brutte”. Hai paura? “Sì, ho paura. Non servo morto al Kashmir. Voglio vivere e fare qualcosa per il mio popolo”. Nelle sue canzoni racconta delle mezze vedove, degli scomparsi e di Parveena. “Canto per dire che tocca a noi scegliere il nostro destino”. Il Kashmir, insiste Mc Kash, è una grande gabbia. Quasi 40mila militanti separatisti hanno abbandonato la violenza. “Vorrebbero solo diventare normali cittadini” aggiunge l’avvocato Imroz. “Ma non possono lavorare perché non hanno né certificato di nascita né passaporto” per andare a lavorare nei Paesi del Golfo. Il Kashmir -dice- è una splendida prigione. 

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