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Diritti / Attualità

Le trattative con l’Iran, l’interesse delle multinazionali occidentali e il “caso Italtel”

Proteste a Teheran davanti all'università Amir Kabir, 11 gennaio 2020 © Wikimedia

Tra il 2015 e il 2018, durante la fase di apertura del Paese ad aziende e multinazionali straniere, molte di queste hanno firmato contratti senza valutare adeguatamente la situazione dei diritti umani per fare affari con Teheran. L’avvertimento dell’Ong olandese SOMO, che invita a fare tesoro delle esperienze passate

Se le trattative attualmente in corso tra l’amministrazione statunitense, i partner europei e l’Iran per ridare nuova vita al Piano d’azione congiunto globale sul nucleare andranno a buon fine e cesseranno le sanzioni internazionali contro Teheran, il Paese potrebbe tornare ad aprirsi ad aziende e multinazionali straniere. Un incentivo per l’economia iraniana ma al tempo stesso una situazione di potenziale rischio per la tutela dei diritti umani. “L’ultima cosa che vogliamo vedere è lo stesso irresponsabile comportamento a cui abbiamo assistito nel 2016, quando governi e multinazionali hanno chiuso un occhio di fronte alle diffuse e ben documentate violazioni dei diritti umani e si sono precipitati in Iran per soddisfare i loro interessi commerciali”, commenta Mohammad Nayyeri, co-direttore di “Justice for Iran”.

L’accordo per il nucleare iraniano, siglato nel 2015, prevedeva infatti la cessazione delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, dall’Unione europea e dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nei confronti dell’Iran, in cambio dell’impegno a rallentare la corsa al nucleare. Un percorso che aveva subito una dura battuta d’arresto nel 2018, con la decisione unilaterale dell’allora presidente Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo. Ma con l’insediamento dell’amministrazione Biden, le trattative per riprendere il percorso interrotto hanno avuto una nuova spinta.

L’Iran potrebbe dunque riaprire le porte alle aziende e alle multinazionali straniere: alla luce di questo fatto “è importante imparare le lezioni del passato”, avvertono SOMO (Centre for research on multinational corporations), FIDH (Federazione internazionale dei diritti umani) e “Justice for Iran” che in un recente paper hanno analizzato i potenziali rischi legati alla violazione dei diritti umani da parte delle aziende che decidono di sottoscrivere accordi economici e commerciali con Teheran. Al centro del dossier c’è il caso di Italtel, multinazionale delle telecomunicazioni con sede in Italia, che nel 2016 ha firmato un Memorandum of understanding con la compagnia telefonica statale “Telecomunications company of Iran” (TCI) per sviluppare il settore delle telecomunicazioni in Iran.

Ma nel Paese, sottolineano SOMO, FIDH e “Justice for Iran”, la gestione dei servizi di telecomunicazione è legata a doppio filo alle autorità politiche e miliari; inoltre questi servizi vengono regolarmente utilizzati per reprimere le proteste e commettere altre gravi forme di violazione dei diritti umani. TCI, infatti, è il principale provider di servizi internet e di telefonia mobile nel Paese, denunciano le tre organizzazioni nel report “Under a watchful eye“. E dal 2009 la quota di maggioranza di TCI è posseduta da un consorzio di compagnie controllate dal Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (i cosiddetti pasdaran), il più potente organo militare iraniano che “ha avuto un ruolo cruciale nella repressione dei dissidenti polititi e delle libertà civili” sia all’interno del Paese sia, più recentemente, nel cyberspazio.

Forte del controllo sulle reti di comunicazione, in occasione delle diverse ondate di protesta, il governo iraniano ha fatto più volte ricorso a restrizioni degli accessi e interruzioni della rete internet per cercare di ostacolare il dissenso. Durante le proteste anti-governative del 2017 e del 2018, ad esempio, il governo ha imposto l’oscuramento di internet e il blocco dei principali servizi di social media. Di nuovo, nel corso delle proteste del novembre 2019, le autorità iraniane hanno spento quasi completamente la rete internet per circa una settimana impedendo qualsiasi forma di comunicazione verso l’esterno. Alla repressione online, si è affiancata quella per le strade e, secondo i principali media internazionali, si è trattato della repressione più violenta dalla Rivoluzione khomeinista del 1979: le persone uccise sono state, probabilmente, diverse centinaia (tra le 180 e le 450 secondo il New York Times).

All’interno di un quadro così critico per il rispetto dei diritti umani, SOMO, FIDH e Justice for Iran hanno presentato un ricorso di fronte al “Punto di contatto” italiano dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) evidenziando “lo stretto controllo delle autorità iraniane su TCI” e affermando che la multinazionale italiana “non aveva identificato i rischi di contribuire a gravi impatti negativi sui diritti umani”. In particolare, il report sottolinea come le imprese siano tenute a rispettare una serie di Linee guida previste dall’OECD proprio per evitare che, con il loro operato, possano rendersi complici di violazione dei diritti umani in Paesi considerati ad alto rischio. Le Linee guida dell’Ocse prevedono che le aziende inizino a valutare questi rischi ancora prima di firmare contratti o progetti, che svolgano con maggiore attenzione pratiche di due diligence prendendo precauzioni extra, implementando un numero maggiore di controlli e applicando una maggiore trasparenza sulle proprie attività commerciali e relazionali.

Sebbene il ricorso presentato al “Punto di contatto” italiano dell’Ocse non sia stato accolto (Italtel e TCI non hanno siglato un contratto dopo la firma del Memorandum of understanding e questo è stato giudicato sufficiente dal “Punto di contatto” per non procedere) SOMO sottolinea nel suo report che Italtel ha deciso di “rivalutare il suo accordo e a ritirare alcuni dei servizi che si era precedentemente offerti a TCI”.

“Come Italtel, molte altre aziende europee hanno firmato contratti e si sono impegnate nell’economia iraniana nel periodo 2015-2018 senza condurre due diligence o senza valutare adeguatamente la situazione dei diritti umani come condizione per fare affari con il regime -conclude SOMO-. Mentre l’amministrazione Biden sta valutando diverse opzioni per rientrare nell’accordo nucleare del 2015 c’è il rischio che le aziende ripetano gli stessi errori”.

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