Esteri / Approfondimento
Le piantagioni di eucalipto in Brasile e le lotte delle comunità locali
Dal 1970 la coltivazione intensiva nello Stato del Minas Gerais ha impoverito i terreni e sottratto i campi alle popolazioni. La pianta cresce rapidamente e il legno è usato come combustibile dalle acciaierie. Coinvolta anche Arcelor Mittal
Faustina Lopes da Silva è una leader della comunità Campo Buriti, una delle sei che sorgono sulle rive del fiume Fanado nel Comune di Turmalina, nell’Alto Jequitinhonha, regione semiarida del Minas Gerais in Brasile. Questa zona è peculiare, caratterizzata da altopiani -le chapadas– e da valli dove sono situati i centri abitati. La popolazione ha sempre vissuto in armonia con l’ambiente locale, il cerrado, ricavando l’acqua di cui aveva bisogno dalle veredas, vene idriche che scendono dalle terre alte. Fino all’arrivo dell’eucalipto, quarant’anni fa. “Negli anni Settanta abbiamo iniziato a sentire voci che sul nostro territorio sarebbe giunta un’impresa. Ci hanno preso le terre che non siamo riusciti a recintare per metterci monocolture di eucalipto. La devastazione è stata spaventosa: c’erano due grandi macchine unite da una catena, che distruggevano la vegetazione e uccidevano gli animali che trovavano lungo il cammino”.
Il proprietario dei terreni su cui cresce l’eucalipto è cambiato spesso. La prima a insediarsi sul territorio è stata un’impresa statale, sotto la spinta di quella che all’epoca veniva chiamata la “rivoluzione verde”. Ora dei 220mila ettari di piantagioni presenti nelle chapadas, 126mila sono di proprietà di Aperam Bioenergia, una controllata di Arcelor Mittal -tra le altre cose socia al 62% di Acciaierie d’Italia, società che gestisce l’ex Ilva di Taranto- che si occupa della produzione di acciaio inossidabile. L’eucalipto, noto per la sua crescita veloce, viene utilizzato per ricavarne il carbone vegetale da impiegare come combustibile negli stabilimenti dell’azienda, situati nel medesimo Stato. Il legno che viene bruciato è certificato Fsc -cioè proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile- dall’ente francese Bureau Veritas. Per questo motivo Aperam si fregia di vendere “acciaio verde”, sostenibile. Le cose però -secondo comunità, università e organizzazioni locali- non stanno proprio così.
“Il guadagno dell’eucalipto va all’impresa, mentre il costo culturale, sociale, economico e ambientale è stato collettivizzato -afferma Flavia Galizoni professoressa dell’Università federale del Minas Gerais, impegnata insieme al suo gruppo di lavoro in studi scientifici sull’impatto delle monocolture sull’ambiente e sulle comunità locali-. Le conseguenze più importanti riguardano le risorse idriche”. L’impresa proprietaria dichiara che le piantagioni non necessitano più acqua di quella che richiederebbe la vegetazione naturale. Gli studiosi, però, hanno dimostrato che a causa dell’elevato fabbisogno dell’eucalipto alle falde arriva il 40% di acqua piovana in meno rispetto a una situazione naturale. “Negli ultimi 40 anni -dice la professoressa- si è seccato il 75% delle sorgenti presenti a valle delle chapadas. Secondo le nostre stime, nell’area delle monocolture si perdono ogni anno tre miliardi di litri d’acqua”. Le comunità locali -la cui popolazione, circa duemila persone, corrisponde al 10% del totale della municipalità di Turmalina- soffrono una condizione di grave insufficienza idrica: il 52% delle famiglie vive con 43 litri al giorno. Un dato allarmante se confrontato con il consumo medio giornaliero pro capite del Minas Gerais, che ammonta a 150 litri e con la cifra minima indicata dall’Onu per una vita dignitosa, cento litri. “Già nei primi cinque anni dall’arrivo dell’eucalipto -racconta Lopes da Silva- abbiamo iniziato a vedere l’acqua nei piccoli rii diminuire. Dopo dieci anni questa diminuzione è stata ancora più evidente. Ora molte veredas sono secche”.
“Lo Stato -dice Galizoni- spende moltissimo in programmi per l’approvvigionamento idrico, come la costruzione di pozzi artesiani o la fornitura con camion cisterna. Per questi ultimi la sola municipalità di Turmalina nel 2018 ha impiegato 288mila real (circa 45.700 euro). Avere delle piantagioni sul territorio non è così conveniente: abbiamo fatto delle comparazioni e abbiamo dimostrato che, in termini di imposte, il guadagno è di circa sei reais all’ettaro per le aree della monocoltura di eucalipto e di 13 reais all’ettaro per le aree protette”. Aperam Bioenergia dichiara che la sua presenza crea molti posti di lavoro. “Nella mia comunità -riporta però Lopes da Silva- solo due persone su mille lavorano per l’azienda”. L’organizzazione di rifermento per gli abitanti di quest’area impegnati a difendere i propri diritti è il Centro de agricultura alternativa Vincente Nica (Cav), un’associazione che si occupa dello sviluppo e del sostegno dell’agricoltura familiare attraverso pratiche sociali. “Il nostro ruolo è mobilitare leader e comunità -spiega il coordinatore Valmir Soares De Macedo- per analizzare in modo critico quello che è successo e capire le trasformazioni sul territorio. Storicamente le popolazioni locali sono sempre state piuttosto passive ma ora qualcosa sta cambiando: c’è molta più consapevolezza e voglia di agire”. Il centro si occupa anche di documentare ciò che succede nelle piantagioni e negli stabilimenti tramite fotografie e prove dirette. “L’azienda ha un bruciatore dei gas studiato per ridurre le emissioni -dice Soares De Macedo-, che però non accende sempre: noi abbiamo ripreso quando non lo fa. Il fumo che viene prodotto arriva fino al centro di Turmalina, distante alcuni chilometri”.
“Il guadagno dell’eucalipto va all’impresa, mentre il costo culturale, sociale, economico e ambientale è stato collettivizzato” – Flavia Galizoni
L’ingresso nell’area della monocoltura di eucalipto non è permesso agli abitanti delle comunità. “Una signora di 70 anni -ricorda Lopes da Silva- è entrata nelle piantagioni per raccogliere della legna secca. Ha dovuto risponderne alla giustizia: è stata condannata a fornire per sei mesi dei prodotti alimentari a chi non ne aveva”. A vigilare sui possedimenti dell’azienda ci sono poliziotti in pensione con il porto d’armi. “L’eucalipto ha tolto spazi che prima venivano utilizzati dalla collettività”, commenta il coordinatore del Cav.
Secondo il centro e le altre realtà coinvolte nello studio delle condizioni sociali e ambientali dell’area, la certificazione Fsc per queste piantagioni andrebbe rivista. Le monocolture di Aperam Bioenergia sono già al terzo ciclo da cinque anni, il che significa che hanno ottenuto il primo riconoscimento e poi per due volte il rinnovo. Ogni anno, però, viene svolto un audit durante il quale l’ente certificatore -in questo caso Bureau Veritas- verifica che sussistano ancora le condizioni di rispetto dell’ambiente e di gestione corretta delle foreste.
È proprio per far pressione sull’ente certificatore in occasione dei controlli periodici che il Cav ha fatto rete con altre organizzazioni e istituzioni brasiliane e internazionali (italiane, tedesche e svizzere). Già lo scorso anno l’associazione -in accordo coi partner– aveva inviato della documentazione a Bureau Veritas che ha analizzato e chiesto conto all’azienda di tutto il materiale ricevuto, un insieme di prove audiovisive e di dati riguardanti gli impatti sociali, ambientali e idrici delle piantagioni. “Le risposte che Aperam Bioenergia ha dato alle nostre segnalazioni in occasione dell’audit -afferma Soares De Macedo- sono state secondo noi vaghe ed elusive. Sicuramente non soddisfacenti”. Sono state anche aperte delle minor non-conformities riguardanti, per esempio, l’impatto sul suolo e sulle risorse idriche, chiuse in un anno. L’audit del 2021 doveva essere a novembre ma è stato posticipato a causa della pandemia. Per sospendere una certificazione, però, devono essere presenti delle major non-conformities, non conformità considerate più gravi non risolte dall’azienda nel tempo -tre o sei mesi- che le viene indicato.
Tra le associazioni che si stanno muovendo per stimolare il dibattito pubblico sul tema dell’eucalipto c’è anche il Centro di volontariato internazionale (Cevi), Ong di Udine che opera nella zona di Turmalina insieme al Cav -che ha contribuito a fondare- da circa 30 anni. “Essere così vicini a questo territorio ci ha portati a interrogarci su che cosa potessimo fare per difendere i diritti delle persone che lo abitano, calpestati da decenni -spiega Marco Iob, project manager che si occupa della campagna internazionale per diminuire gli impatti dell’eucalipto-. Stiamo preparando un rapporto molto dettagliato sulla situazione dell’area delle chapadas che manderemo a Bureau Veritas ma anche a Pedro Arrojo-Agudo, lo Special rapporteur delle Nazioni Unite per il diritto umano all’acqua e ai servizi igienico-sanitari”.
Far pressione sul certificatore non vuol dire, però, mettere in dubbio un sistema di standard virtuosi. “Crediamo nella certificazione Fsc, che secondo noi è uno strumento valido e utile -conclude Iob-. È anche per difendere la dignità e il valore di questo strumento che vogliamo che i regolamenti per la sua concessione siano applicati con estremo rigore. La campagna internazionale è solo all’inizio: lotteremo per difendere i diritti umani delle popolazioni locali, riducendo l’impatto dell’eucalipto”.
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