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Crisi climatica / Approfondimento

Le ombre fossili che oscurano la strategia per l’energia e il clima di Joe Biden

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Presentata come una riforma incentrata sulla giustizia climatica, l’Inflation reduction act avrebbe invece favorito l’espansione delle fonti fossili. Minacciando così non solo il clima e l’ambiente ma anche le popolazioni già marginalizzate che abitano le “zone di sacrificio” del Paese. L’analisi di Oil change international

Presentato dal governo statunitense e dal presidente Joe Biden come “il più grande investimento per l’energia e il clima della storia del Paese”, l’Inflaction reduction act (Ira) ha in realtà favorito l’espansione fossile. Lo denuncia il report “Biden’s fossil fuel fail” pubblicato a novembre da Oil change international, centro di ricerca indipendente sulla crisi climatica.

Se da un lato, infatti, l’Ira è riuscito a ridurre il consumo (seppure in modo modesto) di combustibili fossili grazie alla promozione di tecnologie verdi ed energie rinnovabili, dall’altro ha favorito l’estrazione di nuovi combustibili fossili e portato a una drammatica crescita delle loro esportazioni. Confermando così gli Stati Uniti come il maggior sostenitore delle fonti fossili fino al 2050.

La mancata decarbonizzazione non solo è una minaccia per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dall’Accordo di Parigi sul clima (che prevede di mantenere l’incremento della temperatura media globale entro gli 1,5°C a fine secolo) ma peggiora le condizioni dei cittadini statunitensi, in particolare le comunità già marginalizzate che vivono nelle tante “zone di sacrificio” del Paese. “Se l’amministrazione Biden vuole realizzare gli obiettivi dell’Ira e mantenere le promesse di essere leader in materia di clima e giustizia ambientale, allora deve urgentemente attivarsi per eliminare gradualmente l’estrazione di petrolio e gas -si legge nel report-. Ciò significa tagliare le esportazioni di petrolio e gas, porre fine ai finanziamenti per l’estrazione e bloccare l’approvazione di nuovi progetti di infrastrutture fossili”.

Il cosiddetto Inflation reduction act è stato firmato da Joe Biden il 16 agosto 2022 e consiste in una serie di interventi e investimenti, per un totale di 739 miliardi di dollari, nel settore delle tecnologie verdi e nella lotta al cambiamento climatico. “Con un tratto di penna, il presidente ha ridefinito la leadership americana nell’affrontare la minaccia esistenziale della crisi climatica e ha inaugurato una nuova era di innovazione e ingegno americano per ridurre i costi dei consumatori e far progredire l’economia globale dell’energia pulita”, celebrava quel giorno il momento la Casa Bianca. Tuttavia queste ottimistiche promesse non sarebbero state mantenute.

A giugno 2023 il gruppo di ricerca indipendente Rhodium group ha pubblicato il suo annuale report, il primo dall’approvazione dell’Ira, che analizza le previsioni sulle emissioni climalteranti degli Stati Uniti. Il modello prevede che, nonostante gli investimenti dell’Ira nelle energie rinnovabili, nei veicoli elettrici e nelle batterie, gli Stati Uniti potrebbero comunque non raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di ridurre le proprie emissioni del 50-52% (rispetto ai livelli del 2005) entro il 2030. “Dei tre scenari esaminati, quello intermedio suggerisce che le emissioni di gas serra degli Stati Uniti saranno pari a 4,42 miliardi di tonnellate nel 2030, ovvero il 34% in meno rispetto ai livelli del 2005, mancando l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di ben 16-18 punti percentuali”. Secondo l’analisi più “ottimista” tra quelle esaminate, l’impatto sul clima del Paese calerà del 51% per il 2035. “In altre parole -continua Oil change-, nel migliore dei casi gli Stati Uniti raggiungeranno i loro (già insufficienti) obietti climatici con cinque anni di ritardo”.

A guidare l’espansione è il gas fossile. Mentre la sua domanda interna è destinata a calare del 16% entro il 2035, nello stesso periodo la produzione aumenterà del 7% mentre le esportazioni cresceranno di ben il 92%, per colpa dell’espansione del gas “naturale” liquefatto (Gnl) e del fraking. In particolare, si prevede che l’esportazione di Gnl aumenterà del 140% entro il 2035. “La maggior parte del calo della domanda di gas fossile è prevista nel settore dell’energia elettrica, dove la generazione a gas dovrebbe essere sostituita dall’energia solare ed eolica. Tuttavia -continua il report-, ciò è compensato dall’aumento della domanda nel settore industriale e dalla stagnazione della domanda in altri settori di consumo del gas”. 

Per quanto riguarda il petrolio, invece, il consumo interno diminuirà del 10% entro il 2035 a fronte di un aumento della produzione del 13% e delle esportazioni del 23%. “Questo è, ancora una volta, un sorprendente fallimento dell’attuale politica statunitense -è la denuncia degli autori del report-: mentre l’aumento delle esportazioni di petrolio e prodotti petroliferi alimenta la crisi climatica, gli Stati Uniti esporteranno le emissioni e affermeranno di fare progressi in patria”.

La maggior parte dei nuovi progetti fossili della Casa Bianca è legata al fraking e all’export di Gnl: questi sono situati nel Bacino del Permian in Texas e New Mexico, lungo la regione statunitense del Golfo del Messico e nella catena montuosa degli Appalachi nel Nord-Est. In particolare, le nuove infrastrutture nel Golfo sono responsabili del 90% dell’incremento delle esportazioni di gas liquefatto a livello mondiale, come ribadisce l’Agenzia internazionale per l’energia. Ed è stata proprio l’amministrazione Biden ad aver favorito questi progetti, approvando, ad esempio strutture per l’esportazione di petrolio e gas in Alaska e lungo la costa del Golfo, organizzando due massicce vendite di contratti di locazione di petrolio e gas nel Golfo del Messico, prolungando per altri cinque anni di trivellazioni offshore. Ha inoltre accelerato la realizzazione dell’oleodotto Mountain Valley Pipeline e ha indebolito le leggi ambientali, rendendo più facile l’espansione delle infrastrutture per i combustibili fossili. 

Se da un lato non fa abbastanza per limitare l’espansione del settore oil&gas, dall’altro promuove incentivi fiscali a tecnologie dalla dubbia efficacia, come i sistemi per la cattura di carbonio (Carbon capture and storage, Ccs) e la produzione di idrogeno da fonti fossili. Queste tecnologie non solo sono considerate una distrazione dagli investimenti realmente necessari a una transizione verde ma spesso servono non tanto a ridurre le emissioni quanto semmai a prolungare la vita delle infrastrutture fossili.

L’espansione dei combustibili fossili comporta la costruzione di oleodotti, raffinerie, industrie petrolchimiche e terminal per l’esportazione. Il peso di queste infrastrutture ricade soprattutto su comunità già marginalizzate che abitano le “zone di sacrificio” del Paese. “La ricerca e oltre un secolo di esperienza hanno chiarito che la produzione di combustibili fossili dipende e guida il razzismo -aggiungono da Oil change-. Ogni fase della filiera del petrolio e del gas provoca emissioni tossiche nell’acqua e nell’aria, inquinamento ambientale locale dannoso e altri impatti che ricadono in modo sproporzionato sulle comunità nere, indigene, di colore e a basso reddito. In particolare, le popolazioni indigene, che hanno svolto un ruolo chiave nella resistenza all’estrattivismo, sono particolarmente colpite dal fatto che la produzione di petrolio e di gas interrompe la loro sovranità e i loro modi di vita tradizionali, minaccia i siti sacri e compromette le risorse naturali e i loro mezzi di sussistenza tradizionali”.

Tra le cosiddette “zone di sacrificio” c’è anche Freeport, città costiera del Texas a Sud di Houston, e un polo centrale per la lavorazione e l’esportazione di combustibili fossili con un’economia basata sull’industria petrolchimica e abitata al 75% da una popolazione “non bianca”. Nel giugno del 2022 un’esplosione nel terminal del Gnl ha danneggiato l’impianto, sprigionando sostanze chimiche tossiche. Nonostante le indagini abbiano attribuito la colpa alla gestione dell’impianto questo ha riaperto dopo soli otto mesi, continuando a minacciare la salute dei cittadini nel tentativo di tornare alla sua operatività precedente all’incidente. Una situazione simile si osserva nel Bacino del Permian, nel Sud-Ovest del New Messico, che ha visto una crescita delle estrazioni nell’ultimo decennio, una tendenza destinata a continuare sotto l’influenza dell’Inflation reduciton act, compromettendo le già carenti risorse idriche dello Stato. Le acque reflue di petrolio e gas inquinano i territori delle popolazioni indigene lasciando residui di sostanze chimiche tossiche e altamente persistenti che inquinano anche le riserve idriche non industriali.

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