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Le nostre prigioni, piene e invivibili

Un sistema al collasso e un governo che pensa di risolvere il problema aumentando i “posti letto” e affidandosi ai privati Le carceri scoppiano. Ci sono celle nelle quali i detenuti fanno i turni: un giorno ogni tre, anziché sul…

Tratto da Altreconomia 108 — Settembre 2009

Un sistema al collasso e un governo che pensa di risolvere il problema aumentando i “posti letto” e affidandosi ai privati

Le carceri scoppiano. Ci sono celle nelle quali i detenuti fanno i turni: un giorno ogni tre, anziché sul letto, si dorme sul materasso steso in terra. I carcerati sono esasperati, la polizia penitenziaria protesta da mesi, l’associazione Antigone ha scelto un titolo eloquente per il suo rapporto annuale: “Oltre il tollerabile”. I detenuti, a fine giugno 2009, erano 63.560, ventimila più della capienza regolamentare, e oltre lo stesso limite di “capienza tollerabile” indicato dall’amministrazione penitenziaria. Il carcere è saturo ma il flusso dei detenuti non cessa: quasi mille ingressi nuovi al mese; la soglia dei 70.000 ormai in vista entro fine anno, il traguardo dei 100.000 prigionieri previsto nel 2012. Le condizioni di vita sono inaccettabili: 36 detenuti su 100 manifestano forme di disagio psichico; “Ristretti Orizzonti”, l’associazione nata nel carcere Due Palazzi di Padova, ha documentato 1.365 decessi in carcere dal 2000 al 2009, 501 per suicidio (42 suicidi su 121 decessi nel 2008). Anche il meccanismo delle misure alternative si è inceppato: ne beneficiano solo 9.406 detenuti su oltre 63mila. Occorre intervenire. I detenuti, Antigone, i “riformisti” chiedono la depenalizzazione di alcuni reati, il massiccio ricorso alle pene alternative, la correzione di quelle “norme criminogene”, specialmente su tossicodipendenza e immigrazione, che riempiono inutilmente le celle.
Anche il Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria, chiede di svuotare le prigioni: propone di mandare agli arresti domiciliari i 19.000 detenuti che scontano pene definitive inferiori ai tre anni. Ma non è questa la via scelta dal governo in carica. La risposta al sovraffollamento è un’altra, più coerente con l’ideologia securitaria che da tempo domina l’azione politica: Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), è stato nominato commissario straordinario all’edilizia carceraria, con l’incarico di  progettare, gestire e realizzare un piano di ampliamenti e nuove costruzioni. Aumentano i carcerati, devono aumentare di pari passo le celle: l’equazione è semplice, intuitiva, manda ai cittadini spaventati dall’emergenza sicurezza un messaggio rassicurante. Il piano Ionta prevede 17.129 posti letto da realizzare entro il 2012, con una spesa di un miliardo e mezzo di euro.
A esaminare il piano si scopre pero che per i due terzi dell’investimento -980 milioni di euro per 6.323 posti letto- non sono stati individuati i fondi. Il resto -10.806 posti da realizzare spendendo 610 milioni- sarà finanziato con fondi ordinari già stanziati e ricorrendo a un florilegio di formule che spaziano dai Fas (Fondo aree sottoutilizzate) ai mutui, fino al dirottamento nell’edilizia della Cassa delle Ammende, nata per finanziare l’assistenza e il reinserimento dei detenuti e dotata al momento di 100 milioni.
Infine, governo e commissario non rinunciano all’intervento dei capitali privati. Ionta (nella foto in basso a p. 18) prevede tre via d’ingresso: finanza di progetto (project financing), locazione finanziaria e permuta. Il piano suscita molte perplessità: se anche Ionta riuscisse a trovare i soldi e ad obbligare le imprese edilizie al rispetto dei tempi previsti, la capienza finale sarebbe di circa 60.000 posti letto, poco meno dell’attuale numero di detenuti, ma ben al di sotto del numero stimato da Antigone per il 2012: centomila. Forse Antigone esagera, e magari di qui a tre anni qualcosa potrebbe cambiare, ma intanto il ministro della Giustizia Angelino Alfano (foto a p. 18) ha balenato l’ipotesi di utilizzare navi-prigione, che evidentemente pensa di poter allestire in tempi brevi, senza fare i conti con piani regolatori e normative sull’edilizia. Lo stesso Ionta, che pure non ha menzionato le navi nel suo piano, non ha escluso l’ipotesi. La verità è che l’emergenza è grave e non si sa bene come governarla.
Il piano Ionta è comunque in via di attuazione e Corrado Marcetti, architetto, direttore della Fondazione Michelucci, specializzata in edilizia sociale, indica la parola chiave del “nuovo” sistema carceri. È “densificazione”. Gli urbanisti la utilizzano per descrivere la cementificazione di città e periferie, Marcetti per descrivere i “nuovi” istituti. “La parte più realizzabile del piano Ionta riguarda i 46 nuovi padiglioni da realizzare all’interno di strutture già esistenti. I fondi sono già disponibili e non c’è da cercare aree edificabili, chiedere varianti o approvare piani urbanistici. Basta tirare su nuovi padiglioni negli spazi liberi dentro le mura di cinta: al posto di un campo di calcio, di un orto, e così via. Il risultato sarà un peggioramento delle condizioni di detenzione”. Col sistema dei nuovi padiglioni, si prevede di creare 9.484 posti letto. Marcetti mostra preoccupato un volumone sull’edilizia penitenziaria nel mondo e indica il carcere di Allenwood in Pennsylvania. L’immagine riprende un’enorme camerata dall’alto: sembra la fusione di un call center e delle anguste cabine di un traghetto, con celle minuscole, letti a castello e muri divisori che non arrivano al soffitto. È il “carcere densificato” che risparmia spazio, comprime i detenuti e soddisfa l’ideologia della detenzione come pura punizione. “È un fenomeno mondiale -chiosa Marcetti-. Le prigioni devono essere puri parcheggi dei corpi. L’edilizia carceraria viene omologata, privata di ogni funzione sociale. Così diventa possibile la privatizzazione”.
L’ingresso dei privati e la creazione anche in Italia del “business penitenziario” è una vecchia idea che cominciò a prendere forma nel 2001, quando Piero Fassino, ministro della Giustizia, dispose la chiusura di 21 carceri e la costruzione di nuove strutture. Tutto rimase sulla carta. Un passo avanti fu compiuto dal ministro successivo, il leghista Roberto Castelli, con la nascita di una società ad hoc, Dike Aedifica, partecipata al 95% da Patrimonio spa (controllata dal governo). Dike Aedifica non riuscì mai ad operare, fu investita da un’inchiesta giudiziaria e alla fine è stata sciolta. Il piano Ionta prova a riaprire una porta ai privati, ma secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, siamo di fronte a un bluff: “Un privato di buon senso -spiega-, è disponibile a mettere i soldi per costruire un carcere solo se può guadagnare dalla successiva gestione, oggi chiaramente preclusa dalle leggi dello Stato e dalla Costituzione”. Negli approcci con costruttori e possibili finanziatori, si è ipotizzato di affidare ai privati alcuni servizi accessori, come il vettovagliamento, la manutenzione, ma il margine di guadagno sarebbe irrisorio. Anche l’esperienza compiuta negli Usa dimostra che il guadagno esiste, per i privati, se il settore pubblico cede e quindi paga anche le funzioni di custodia e sorveglianza. In Gran Bretagna, società come Group 4 Securicour, che gestisce cinque prigioni, o Serco, che ne ha quattro, associano al business penitenziario anche la gestione di case di cura e ospedali: la cornice è un’organica privatizzazione del welfare e un cospicuo spostamento, come dicono i sociologi, “dallo Stato sociale allo Stato penale”.
In Italia la composizione sociale della popolazione carceraria già riflette questo fenomeno di “criminalizzazione” dei ceti più bassi, con un uso del codice penale che tende a colpire alcune specifiche categorie e reati di lieve entità ma considerati “politicamente sensibili”: un’unica fattispecie di reato, l’articolo 73 della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, è responsabile del 40% del totale dei detenuti; il 46% dei nuovi entrati in carcere nel 2008 sono stranieri; un terzo dei detenuti deve scontare pene inferiori a tre anni. Non esiste tuttavia un “comparto industriale” della sicurezza, che leghi edilizia carceraria, vigilanza privata, sistemi di controllo diffusi (videosorveglianza, allarmi, blindature domestiche eccetera): l’esclusiva finora riservata allo Stato delle funzioni di custodia ne impedisce il decollo. Ma non è detto che la situazione sia intangibile: anche le ronde sono state legalizzate.
Il business penitenziario, in Italia, potrebbe però prendere una forma tutta sua, con la speculazione edilizia. Alune carceri storiche insediate nei centri di alcune grandi città -San Vittore a Milano, Regina Coeli a Roma, Ucciardone a Palermo e così via- sono assai appetibili e potrebbero essere cedute in cambio della costruzione in periferia di nuove strutture. La dismissione dei vecchi istituti, concepiti in altri tempi e spesso usurati, incontra il favore di molti operatori, ma Corrado Marcetti mette in guardia: “Io credo che se vogliamo restare fedeli all’idea del carcere come luogo di ‘reinserimento’, non possiamo proseguire con la politica dell’allontanamento dalla città. Più delle metà dei detenuti sono in attesa di giudizio, quindi la vicinanza con i tribunali è un’esigenza reale. E anche le misure alternative, pensiamo alla semilibertà, vanno sostenute con la disponibilità di spazi adeguati nel tessuto cittadino”.
 Le vecchie carceri però fanno gola e si sostiene che siano irrecuperabili. “Non è vero -dice Marcetti-. A Manchester, dopo la rivolta del 1990, il vecchio carcere vittoriano, tutto in mattoncini rossi, è stato ristrutturato: certo, è calato il numero dei detenuti, ma svolge benissimo le sue funzioni”.
Antigone ha una sua proposta contro il sovraffollamento, a costo zero e in linea con la filosofia del “carcere minimo”: revisione della legge ex Cirielli, che inasprisce le pene e blocca i benefici per i recidivi; abrogazione della norma che prevede la carcerazione per chi non rispetta il provvedimento d’espulsione; abrogazione dell’articolo 73 della legge Fini-Giovanardi sullo spaccio di droghe. Il ministro Alfano e il commissario Ionta sembrano avere idee diverse, ma sono in evidente affanno. Lo scontro è di natura politica e riflette due modi opposti di concepire la società e i diritti di cittadinanza. La posta in gioco, oltre alla funzione del carcere e alla qualità di vita dei detenuti, è quella indicata da Francesco Amirante, presidente della Corte costituzionale, durante la presentazione del rapporto di Antigone: “I diritti fondamentali devono essere sempre garantiti; dobbiamo impedire che vi sia una regressione motivata dalla straordinarietà delle situazioni”.

Fuori dai ristretti orizzonti
Il sistema carcerario è disastrato e tuttavia è possibile trovare casi di “buona gestione”. Il Rapporto 2009 di Antigone ha ripreso una valutazione di “Ristretti Orizzonti” sui casi di buona e cattiva vivibilità, esaminati secondo precisi criteri: affollamento, struttura edilizia, formazione professionale, progetti “trattamentali”, lavoro in rete con enti locali, personale e volontariato, lavoro interno, concessione di misure alternative e lavoro esterno. I “promossi” sono  il carcere di Bollate, all’avanguardia nei progetti di “trattamento” e nei legami col volontariato; quello di Padova, sede del Centro di documentazione “Due Palazzi”, la più credibile e tempestiva fonte d’informazione sull’universo carcerario nazionale;
la casa circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino; il nuovo complesso di Rebibbia a Roma; l’istituto di pena femminile della Giudecca a Venezia. Fra i penitenziari peggiori, Ristretti segnala Favignana, Poggioreale a Napoli (il più affollato, con 2700 detenuti a fronte di 1300 posti), Brescia, Sassari, Belluno, Bolzano, Regina Coeli (Roma) e l’Ucciardone di Palermo.

La fine delle misure alternative
Il pianeta carcere si sta chiudendo in se stesso: le misure alternative alla detenzione sono concesse con difficoltà crescenti, sia per la tipologia dei detenuti (alta percentuale di immigrati, privi di sostegni esterni e/o di permesso di soggiorno), sia per le scelte compiute dai magistrati di sorveglianza, sottoposti a evidenti pressioni politiche e mediatiche (le polemiche sui detenuti in permesso che compiono reati). Secondo il Dap i detenuti in misura alternativa sono 9.406; nel 2007, quando la popolazione era inferiore a quella attuale, erano 10.389. Antigone denuncia un calo del ricorso alle misure alternative all’indomani dell’indulto del 2006. Secondo i dati dell’associazione, negli ultimi due anni sono state respinte fra il 40 e il 50% delle richieste di misure alternative. Sono state accettate solo il 22% delle domande di semilibertà, il 40% delle domande di affidamento in prova al servizio sociale, il 30% delle domande di detenzione domiciliare.
 

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