Economia
Le mosse del lobbista – Ae 91
Il loro compito è convincere parlamentari e funzionari europei a votare misure a favore delle aziende per cui lavorano. A Bruxelles sono 15mila, e questa è la loro giornata tipo Tacchi a spillo combattenti, badge marrone al collo, quotidiano finanziario…
Il loro compito è convincere parlamentari e funzionari europei a votare misure a favore delle aziende per cui lavorano. A Bruxelles sono 15mila, e questa è la loro giornata tipo
Tacchi a spillo combattenti, badge marrone al collo, quotidiano finanziario sotto braccio e caffè lungo nella mano sinistra. Mentre la destra prodiga senza sosta strette di mano a funzionari della Commissione o a parlamentari europei. Chi vive a Bruxelles, direttamente o inconsciamente fa
o è soggetto ad attività di lobbying. Instancabilmente.
Per plasmare una direttiva o un regolamento, sapendo far valere le proprie ragioni, le multinazionali si affidano a società di consulenza (vedi pagina 17) composte da soggetti disposti a sposare la causa del proprio cliente con una devozione che non dedicherebbero nemmeno al proprio partner.
Sono circa 15mila i lobbisti che affollano i corridori di Bruxelles: sono giovani, instancabili, motivati, spesso single e vengono da tutta Europa.
Sveglia presto, Financial Times in caffè forte, un occhio alla Bbc e alla stampa internazionale. Poi, se ti va bene, organizzi meeting nei corridori delle istituzioni. Capita, però, di dover comprare un biglietto aereo di andata e ritorno nella stessa giornata per andare a sentire cosa desidera l’azienda che rappresenti. Una volta tornata, organizzi la cena con il funzionario. Potresti dover fissare una video conferenze dal tuo hotel al mare. E lavorare nel week end: la reperibilità è totale. Non può mancare una pc ultra compatto, il blackberry, taxi a disposizione, una bolletta del telefono senza vergogna. Nessun problema: paga l’azienda. La stessa disposta a iscriverti a un corso intensivo di lingue (non importa se di francese o di giapponese), per accrescere le tue competenze e rispondere meglio alle esigenze del clienti che rappresenti. Quell’azienda che a volte, se contenta, ti regala un week end nella località che preferisci, per staccare un po’ la spina e rigenerarti. Al ritorno potrebbe capitarti di dover convincere i burocrati che la patata ogm è un’ottima occasione per l’Europa, che la vodka si può chiamare così anche se ottenuta dalla barbabietola, che negli hotel servono gli estintori a pioggia. Non fa molta differenza. Fai il mestiere che fai indipendentemente dall’azienda per la quale lavori. Sei stato scelto per “accelerare le pratiche”, “ingrassare gli ingranaggi”e “agevolare gli incartamenti” per conto della società che rappresenti. Il lobbista più richiesto è quello il cui titolo è supportato da un “ex”: ex funzionario, ex parlamentare. In questi casi la sua rete di contatti varrà oro (e sarà pagata profumatamente, fino 1.500 euro l’ora).
Il passaggio, a volte incestuoso, dalle istituzioni alle lobby, non prevede nessun periodo di sospensione. Non sono molti quelli che arrivano a Bruxelles per fare il lobbista. All’inizio un po’
ci si vergogna. Del fascino di questa professione ben pagata, con rapide prospettive di crescita e capace di soddisfare gli egocentrismi più forti, ci si accorge solo in seguito. Basta solo scegliere quale interesse sposare. E guai a trascurare l’aspetto.
“La cosa più importante è come impacchettiamo la nostra immagine”. Lo diceva anche Nick Naylor, in Thank you for smoking, film cult per ogni lobbista in erba. Era pagato per difendere le ragioni delle multinazionali del tabacco che fanno 1.200 morti al giorno.
L’aspetto è così importante che alcune società di lobby rimborsano ai propri impiegati anche le “spese di immagine”: insomma, compratevi dei bei vestiti, sobri, ma eleganti.
Non apparite ingessati, ma nemmeno sfacciati.
Siate provocanti, soprattutto voi, care signorine, ma non dimenticate che il vostro obiettivo è convincere il funzionario a difendere i vostri interessi. Ben venga quindi l’appuntamento ogni lunedì dal parrucchiere: tanto paga l’azienda. Chi vuole appartenere alla cerchia dei lobbisti avrà più chance se infiocchetterà le sue richieste in una gonna. Non volgare, ma “interessante”. I tacchi alti sono un must (così come le scarpe più basse che sbucano da certe borsette). Scarpe eleganti e una manicure accurata però non bastano per “avvicinare” funzionari, tecnici o parlamentari europei, dai quali dipende il 70% della legislazione che verrà poi approvata a livello nazionale, regionale e locale.
Le competenze da dimostrare sono iper-tecniche, maturate a suon di studi matti e disperati su questioni che possono apparire inezie ma sono capaci di cambiare le sorti (economiche, ma non solo) di un azienda. L’innamoramento tra un lobbista e la sua preda avviene gradualmente: è un lento processo che si basa sulla fiducia. Le analisi che il lobbista deve fornire al burocrate devono essere considerate decisive, quasi portavoci di verità monolitiche. Questa conoscenza tecnica affidabile convince il funzionario ad ascoltare il lobbista, ad accettare un pranzo (e qualche regalino) o a rispondere con solerzia alle sue pressanti telefonate. I lobbisti, a differenza dei giornalisti, hanno un canale d’accesso privilegiato per contattare il funzionario: i loro incontri sono inseriti ufficialmente nella agenda di chi lavora per l’Ue. Nessun segreto, nessun imbarazzo se i due si incontrano alla luce del sole o direttamente negli uffici della Commissione.
In Parlamento poi, una volta registrati (sono circa 4.600), i lobbisti girano indisturbati con il loro badge marroni, ascoltano i dibattiti delle varie commissioni e incontrano le persone che vogliono “sensibilizzare”. La Commissione Ue considera “fondamentale questo processo per lo sviluppo di politiche ragionevoli ed efficaci”: i lobbisti sono gli “esperti da consultare”. Il 70% delle lobby difende gli interessi di aziende private, il 20% quelli di Regioni, città e istituzioni internazionali. Non sempre le aziende che investono più soldi sono quelle che ottengono maggiori vantaggi. Durante la definizione del regolamento Reach sulle sostanze chimiche, ad esempio, Greenpeace e Wwf si sono fatte ascoltare più delle ricche lobby della chimica. Grazie (anche) all’appoggio della stampa. Le lobby più povere, come quelle ambientaliste e di difesa dei consumatori (circa il 10%), preferiscono non affidarsi alle società di consulenza, ma fare da sole. Basta offrire qualche pranzetto ai giornalisti e spiegar loro, con calma, quali sono “le questioni salienti” di una norma in discussione. È fondamentale che nella rubrica di un buon lobbista figuri almeno il numero di telefono di un paio di giornalista.
Anche alla stampa il lobbista dedica una parte della sua attività.
A volte con tanta insistenza da convertire il giornalista in un adepto. E allora è scacco matto.
L’assalto al parlamentare
Vittorio Agnoletto, parlamentare europeo dal 2004. Quando hai incontrato le lobby per la prima volta?
Era il mio secondo giorno a Bruxelles, nel luglio 2004: non ero ancora stato nominato ufficialmente e non ci erano nemmeno stati assegnati gli uffici. Dovevo essere affidato alle commissioni: avevo chiesto commissione Esteri e Commercio con l’estero. Sono in un ufficio, in attesa di destinazione. Squilla il telefono, è per me: una ragazza mi dice che una grande azienda italiana (ma non ne fa il nome) vuole farmi i complimenti per l’elezione, e mi invita a cena. Mi fa anche i complimenti per essere stato assegnato alla commissione Industria. Io, incredulo, le spiego che pensavo di finire in quella per il Commercio estero. Mi prega di attendere, si consulta con qualcuno dall’altra parte del telefono. Capisce che sono in una commissione che non le interessa. Non sono l’uomo giusto, mi saluta. Una lobby mancata.
Altre esperienze di questo tipo?
Nell’autunno 2005 si discuteva della questione dei farmaci per bambini. Una breve introduzione: fino ad allora solo l’esperienza indicava come e in quali dosi utilizzare farmaci non specificatamente studiati per bambini.
Le ricerche per farmaci non pediatrici vengono sempre fatte sugli adulti. L’Unione europea un giorno decide che serve un regolamento per i farmaci prescritti anche ai bambini, che per mettere in commercio un nuovo farmaco le aziende devono presentare una ricerca da parte delle aziende specifica
per l’utilizzo del medicinale sui bambini. A tre settimane dall’arrivo in aula del provvedimento per il voto, siamo tutti subissati da e-mail e lettere da parte di case farmaceutiche. Il punto su cui insistevano le aziende era: voi chiedete un regolamento e le ricerche, noi in cambio chiediamo il brevetto di quei farmaci sia allungato di sei mesi (oltre ai 20 anni previsti per legge). Su provvedimenti come questo di solito si raggiunge o il consenso o almeno un testo condiviso con emendamenti. Su quella risoluzione c’era un testo con molti emendamenti. Uno chiedeva di allungare di sei mesi del brevetto, come desiderato dalle aziende farmaceutiche, che evidentemente avevano trovato qualcuno ad ascoltarle. Poco prima del voto arriva una lettera con tutti gli emendamenti e come votarli: si, no, astenuti. Senza contare gli inviti per cene e cocktail. Arrivo in ufficio pochi giorni prima e trovo due hostess ad attendermi. Vogliamo parlarle perché sappiamo che c’è la risoluzione sui farmaci pediatrici, mi dicono. Io dico che non c’è da perdere tempo con me, se conoscono la mia storia. Mi mostrano il dossier che hanno sul mio conto, ma non insistono. Puntuale, arriva anche la lettera del presidente di Farmindustria Italia con le indicazioni di voto. Ovviamente passa il prolungamento di sei mesi del brevetto.
C’è anche un episodio positivo?
Era l’estate del 2005, si trattava di decidere se brevettare i software. Siamo diventati pazzi: non si poteva più accendere il computer da quante e-mail ricevevamo. Però su quello si è retto, e la brevettabilità dei software non è passata. Perché? Credo perché esisteva un forte movimento di opinione pubblica che si opponeva al provvedimento.
Cosa dire invece delle lobby “buone”: ambientalisti, movimenti per la pace o la giustizia…
Sul tema dei diritti umani ci sono tante organizzazioni, ma tutte del Nord Europa. C’è invece un ritardo spaventoso da parte dell’associazionismo italiano a capire che l’Europa non è solo quella che fa bandi ed eroga fondi. Capisco che una singola associazione non può aprire un ufficio a Bruxelles, ma allora perché non mettersi insieme? La lobby che passa attraverso il network associativo funziona. (pr)
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Operazione trasparenza
“La gente ha diritto di sapere”. Questo lo slogan lanciato nel 2006 dalla Commissione europea per far chiarezza sul processo legislativo europeo. Incluso il lobbismo, attività dei gruppi di interesse definita “legittima” dalla Commissione ma bisognosa di più trasparenza.
La Commissione Ue ha così promesso di aprire, entro la primavera 2008, un registro facoltativo dei rappresentanti dei gruppi d’interesse che lavorano a Bruxelles e la creazione di un codice di deontologia comune per le lobby. In cambio l’esecutivo invierà loro, prioritariamente, documenti di consultazione nei settori di loro interesse.
L’obiettivo è quello di garantire la legittimità della attività di questi gruppi e, al tempo stesso, di poter disporre di un’immagine dell’attività dei soggetti che influenzano i processi decisionali pubblici o che sollecitano l’avvio di nuovi discussioni. Niente più regalini, viaggetti con signora, niente più cene lume di candela con lobbiste dalla coscia lunga.
Per raggiungere questo obiettivo l’esecutivo presenterà criteri precisi per convalidare le iscrizioni: gli studi di consulenza dovranno dichiarare il fatturato risultante dalle attività di lobbying e la parte relativa a ciascun cliente. Mentre i rappresentanti interni alle aziende dovranno fornire stime sui costi legati alle attività dirette di lobbying. Gli uffici che rappresentano le Regioni degli Stati membri saranno esentate da queste regole perché l’esecutivo Ue, a differenza del Parlamento, non riconosce la loro attività di lobby.
L’elenco dei “gruppi di interesse” accreditati al Parlamento europeo, nel frattempo, è qui: http://www.europarl.europa.eu/parliament/expert/lobbyAlphaOrderByOrg.do?language=IT
I nomi di chi preme
Hanno le loro sedi tra le fermate della metropolitana Trone e Schuman, a Bruxelles. Sono le spine nel fianco della Commissione europea e del Parlamento. La cui distanza, meno di un chilometro, permette al lobbista di combinare bene colazioni di lavoro, pranzi al ristorante, e un aperitivo in Place de Luxembourg, ritrovo ideale per incontri informali, dove lobbista e funzionario gettano la maschera e, per un paio di ore (e di birre), soprattutto il venerdì, fingono di starsi davvero simpatici. Le decisioni a Bruxelles si prendono (anche) così.
Hill & Knowlton (hillandknowlton.com), Weber Shandwick (webershandwick.it), Fleishman Hillard (fleishman.com, nella foto a destra l’home page della pagina web del gruppo), Apco, Kreab: sono solo alcuni dei nomi delle consultancy a cui si affidano le grandi multinazionali per fare pressione sui burocrati. Aderiscono all’Epaca, la European Public Affairs Consultancies Association (epaca.org), creata nel gennaio del 2005. Ci sono poi la lobby dei poveri e quella dei buoni: ong, ambientalisti, associazioni dei consumatori. Nessuno, nemmeno loro, fornisce indizi sul budget a disposizione. E non nominano mai il nome dell’azienda che rappresentano. Alcune fanno pressione per salvaguardare i diritti delle donne, altre per promuovere o scongiurare l’introduzione di cibi transgenici, per emendare le ultime norme in campo farmaceutico. Generalmente le lobby hanno grande influenza nei campi in cui la legislazione è agli inizi, come le biotecnologie. Ogni anno, il Ceo (Corporate Europe Observatory, organizzazione indipendente con sede ad Amsterdam), premia la “peggiore lobby europea”. Quest’anno hanno vinto Bmw, Daimler e Porsche perché, con una campagna di disinformazione ed allarmismo, sono riuscite a far procrastinare l’adozione di una misura per la riduzione delle emissioni di CO2 a livello europeo (worstlobby.eu/2007).