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Le figlie mangiate dall’Isis: il documentario di Kaouther Ben Hania tra realtà e finzione
A fine giugno esce in sala “Quattro Figlie” della regista tunisina Kaouther Ben Hania. Un’opera potente e coinvolgente -premiata come miglior documentario a Cannes- che esplora la complessa storia di una famiglia tunisina tra radicalizzazione e ricerca di identità. Ispirato da un tragico fatto di cronaca, segue la vicenda di due sorelle che si sono unite al fu Stato Islamico in Libia
“Olfa ha quattro figlie. Le più giovani, Eya e Tayssir, vivono ancora con lei. Le maggiori, Rahma e Ghofrane, le ha mangiate il lupo”.
È l’incipit di “Quattro figlie” della tunisina Kaouther Ben Hania, ispirato da un fatto di cronaca in Tunisia, cioè la radicalizzazione di due sorelle partite per unirsi allo Stato Islamico in Libia, un paio di anni dopo le Primavere arabe del 2011, che in Tunisia sono ricordate come Rivoluzione dei Gelsomini. Concepito dalla regista come un “laboratorio terapeutico di rievocazione dei ricordi”, esce in sala il 27 giugno, forte del premio come miglior documentario a Cannes ed essere stato candidato agli Oscar.
Dopo aver tentato, senza successo, di raccontare questa storia in forma di documentario classico, Kaouther Ben Hania -già autrice dei film “La bella e le bestie” (2017) e “L’uomo che vendette la sua pelle” (2020)- ha ideato un approccio per far emergere le voci delle due sorelle rimaste a casa e della loro madre Olfa: “Un documentario sulla preparazione di una falsa finzione che non vedrà mai la luce”, come ha dichiarato la regista.
Un’attrice molto conosciuta soprattutto in Tunisia ed Egitto, Hend Sabri, è stata scelta per interpretare la madre, Olfa Hamrouni, per le scene più dure e traumatiche, come fosse una contro-figura emotiva; due giovani attrici, Nour Karoui e Ichraq Matar, interpretano le sorelle scomparse; mentre Eya e Tayssir Chikhaoui recitano nei panni di loro stesse. L’elemento centrale non è tanto l’interpretazione individuale, quanto le dinamiche che si creano tra queste diverse donne.
Mentre la ricostruzione prende vita, “Quattro figlie” ci cala in un racconto che, pur narrato indirettamente, svela le luci e le ombre di una famiglia, di una cultura e di un Paese in trasformazione. La regista Ben Hania guida un’esplorazione dolorosa della memoria, scavando nelle relazioni tra generazioni e indagando il ruolo della donna e del corpo.
Al centro del film c’è Olfa, donna forte ma allo stesso tempo figura oppressiva per le sue figlie. La sua presenza sovrasta la ricostruzione, mentre alterna la direzione delle riprese con la sua interprete sulla scena. I ruoli si mescolano, realtà e finzione si intrecciano, creando un gioco di specchi e sdoppiamenti al limite dell’ambiguità. Attraverso questa messa in scena, Ben Hania riesce a rendere visibile l’intreccio tra le vicende personali e il contesto socioculturale. La trasformazione del Paese si riflette nelle dinamiche familiari, mentre la ricerca di identità delle protagoniste si intreccia con la lotta per la propria emancipazione.
Il film è una delle poche opere che cerca di ricostruire i processi di radicalizzazione, confusi con quelli di emancipazione e ribellione: va tenuto presente che all’epoca della fuga in Libia, le due figlie maggiori erano da poco adolescenti. “Quattro figlie” è un film che non si limita a raccontare una storia, ma invita a riflettere su temi universali come la famiglia, la memoria, la tradizione e il ruolo della donna nella società. Un’opera potente e a tratti commovente che spinge a confrontarsi con le nostre stesse esperienze e a interrogarci sul significato di verità e finzione. A Cannes la proiezione del film è stato un evento, riuscendo a rimettere al centro la campagna per la liberazione dei detenuti e dei famigliari dell’ex Stato islamico, un tema per lo più rimosso dal dibattito pubblico, soprattutto in Tunisia, uno dei Paesi dove è stato maggiore il coinvolgimento di foreign fighters dell’Isis.
Per descrivere la peculiarità del film, Ben Hania ha parlato di “re-enactment brechtiano”, una tecnica che consiste nel rimettere in scena eventi del passato per confrontarsi con essi in modo critico. Questa metodologia è simile al teatro dell’oppresso, dove il pubblico è invitato a riflettere e a partecipare attivamente alla narrazione. Il risultato è un prodotto cinematografico estremamente particolare: quasi un film povero, composto da scene di recupero girate dietro le quinte, che trasmettono un senso di intimità e claustrofobia. L’intera pellicola è ambientata in interni, dove scene di forte impatto drammatico si alternano a momenti di intimità, sensualità, rivelazione e dolcezza.
Il film si distingue per la sua struttura narrativa e stilistica unica, che utilizza questi elementi per creare un’atmosfera coinvolgente e riflessiva. Tuttavia, se da un lato l’esperimento cinematografico appare riuscito, dall’altro lato emerge una critica riguardo alla mancanza di una riflessione etica approfondita sulla responsabilità delle immagini presentate. Questo aspetto diventa particolarmente problematico quando si considera la scelta di adottare anche il punto di vista di un personaggio molto forte come Olfa. La sua prospettiva, talvolta poco attendibile, rischia di suggerire interpretazioni didascaliche e univoche, limitando così la complessità e la profondità del discorso filmico.
In definitiva, mentre il film riesce a catturare l’attenzione e a stimolare il coinvolgimento emotivo e intellettuale dello spettatore, la mancanza di una maggiore analisi etica e la scelta di una narrazione potenzialmente monolitica rappresentano dei limiti che ne compromettono in parte l’impatto complessivo. Nonostante ciò, il lavoro di Ben Hania rimane un esempio affascinante di come il cinema possa esplorare nuove forme espressive e narrative per affrontare temi complessi e delicati.
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