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Economia / Varie

Le droghe non sono tutte uguali

I dati dimostrano che la repressione colpisce le sostanze stupefacenti leggere, la cui legalizzazione potrebbe invece essere una soluzione

Tratto da Altreconomia 178 — Gennaio 2016

Il 2016 potrebbe essere l’anno di svolta per le politiche internazionali in materia di droga. Alla fine di aprile, infatti, si terrà a New York l’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulle droghe (UNGASS). Si tratta di un appuntamento fondamentale, a quasi vent’anni  dall’ultima dichiarazione di “guerra alla droga” su scala globale (cosiddetta war on drugs), che ha visto gli Stati Uniti alla guida degli “intransigenti”. Per comprendere oggi la portata del fallimento di quell’approccio è sufficiente recuperare la “dichiarazione politica” del 10 giugno 1998 adottata dall’Assemblea generale dell’ONU (il direttore dell’ufficio delle Nazioni Unite per il controllo delle droghe e la prevenzione del crimine era Pino Arlacchi, oggi europarlamentare) e concentrarsi su un obiettivo in particolare: “Ci impegniamo […] al fine di eliminare o ridurre in modo significativo la coltivazione illecita della foglia di coca, della pianta di cannabis e del papavero da oppio entro il 2008”. 

A decretare la sconfitta non è stato soltanto l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan (in carica dal 1997 al 2007), secondo il quale “la guerra alle droghe ha fallito nell’Africa Occidentale e dovunque nel mondo”, o il “peso” che i detenuti per reati in materia di stupefacenti hanno nelle prigioni federali statunitensi (nel 2001 rappresentavano addirittura il 56%), ma è la realtà fotografata, da ultimo, dal World Drug Report 2015 dell’UNODC -United Nations Office on Drugs and Crime-: “246 milioni di persone hanno fatto uso di una droga illecita nel 2013 -si legge nel report-, e ciò rappresenta un incremento di 3 milioni di unità rispetto all’anno precedente a causa dell’aumento della popolazione mondiale. […] l’uso di droga è rimasto stabile”.

“La nuova assemblea straordinaria si sarebbe dovuta tenere nel 2019 -spiega Franco Corleone, già segretario dell’associazione di promozione sociale “Forum Droghe” e dal 2013 garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana-, ma è stata anticipata a seguito della richiesta ‘urgente’ dei presidenti di Colombia, Guatemala e Messico, Paesi stravolti dal narcotraffico. L’attuale segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha promesso un dibattito ‘franco, trasparente, aperto, non condizionato’, perché questa sessione straordinaria avrà luogo in un quadro di assoluta novità rispetto al passato”.
Infatti, alcuni Paesi hanno riaperto il fronte della depenalizzazione e della regolamentazione in particolare delle droghe leggere, capovolgendo quindi quei principi (sconfitti) alla base della guerra mondiale alle sostanze. Dalla Bolivia -che ha approvato la legalizzazione della foglia di coca- all’Uruguay -legalizzazione della cannabis a scopo ricreativo-, passando per alcuni Stati degli USA -Alaska, Oregon, Colorado, Washington su tutti-, il Messico -dove la Corte suprema, a novembre, ha accolto un ricorso favorevole alla legalizzazione della cannabis-, e il Canada, giungendo fino al Belgio -dove sono stati impiegati e studiati alcuni modelli di “Cannabis Social Club”, ovvero di coltivazione collettiva della cannabis. La “guerra alle droghe” è stata così indiscriminata da aver colpito soprattutto la cannabis, come dimostra, su scala europea, la repressione dei reati in materia di sostanze stupefacenti. Su 1,25 milioni di reati riportati nella “Relazione europea sulla droga 2015” -curata dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (EMCDDA)-, infatti, 781mila erano riferibili al “consumo di cannabis”, compresi consumo e detenzione per “uso personale”.

Anche in Italia è evidente lo squilibrio repressivo nei confronti delle droghe leggere, che sono quelle “meno dannose per i consumatori e meno remunerative per le narcomafie”, come hanno ricordato i curatori del 6° Libro bianco sulla legge sulle droghe edito da Fuoriluogo.it. Nel 2014 -i dati provengono dalla relazione annuale della Direzione centrale servizi antidroga-, su 26.692 segnalazioni per “Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope” (l’articolo 73 del Testo unico in materia, che è del 1990), 13.838 riguardavano la cannabis e solo 7.577 la cocaina. Anche in tema di sequestri effettuati emerge lo squilibrio delle forze e dei risultati raggiunti: secondo la stessa Direzione centrale, nel 2014 i sequestri di cocaina sarebbero scesi del 21% rispetto al 2013, contrariamente a quelli relativi alla cannabis (+211,29% l’hashish -la resina-, +15,93% marijuana -le foglie-, -86% piante di cannabis). In otto casi su dieci, peraltro, la cocaina che entra nel nostro Paese (2.659,65 chilogrammi in totale nel 2014) lo fa dal mare. Per contrastarne il traffico occorrono risorse e mezzi, che però sono contemporaneamente concentrati su tutt’altre sostanze. E, paradossalmente, la richiesta di depenalizzare le droghe leggere per potersi concentrare meglio sul contrasto a quelle “letali”, ossia quelle pesanti, generando così benefici economici e prosciugando un mercato oggi saldamente in mano alle associazioni criminali, non è giunta dall’isolato movimento antiproibizionista, ma dalla Direzione nazionale antimafia (DNA).

Nel gennaio 2015 (un anno fa), l’ultima relazione sulle “attività svolte” dalla DNA -dal 1° luglio 2013 al 30 giugno 2014- dedicava un passaggio chiarissimo al punto: “[…] spetterà al legislatore valutare se […] sia opportuna una depenalizzazione della materia, tenendo conto del fatto che, nel bilanciamento di contrapposti interessi, si dovranno tenere presenti, da una parte, le modalità e le misure concretamente (e non astrattamente) più idonee a garantire, anche in questo ambito, il diritto alla salute dei cittadini (specie dei minori) e, dall’altra, le ricadute che la depenalizzazione avrebbe in termini di deflazione del carico giudiziario, di liberazione di risorse disponibili delle forze dell’ordine e magistratura per il contrasto di altri fenomeni criminali e, infine, di prosciugamento di un mercato che, almeno in parte, è di appannaggio di associazioni criminali agguerrite”.
La “materia” a cui si riferiva la DNA  era appunto quella delle droghe leggere, che nel nostro Paese hanno vissuto una protratta stagione dichiaratamente proibizionista -sull’onda della citata war on drugs- e giunta all’apice con la cosiddetta legge “Fini-Giovanardi”, che dal 2006 ha riformato in senso punitivo il testo unico sulle sostanze stupefacenti (DPR 309/90).
Un metodo così punitivo da essersi rivelato perfettamente inutile, per citare il discorso di Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di Cassazione. All’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, infatti, questi parlò di una “estrema inutilità dell’incremento sanzionatorio” stabilito dal provvedimento bocciato in parte dalla Corte Costituzionale nel febbraio 2014 (sentenza 32/2014, vedi Ae 168, http://bit.ly/finigiovanardi). Al 31 dicembre 2014, infatti, i ristretti in carcere per produzione o detenzione di stupefacenti erano il 33% dei detenuti.
Ma la bocciatura della Fini-Giovanardi -e il conseguente abbandono dell’equiparazione tra droghe leggere e pesanti- non ha affatto risolto alcuni nodi importantissimi. Uno su tutti è il fatto che il consumo personale è ancora considerato un illecito e quindi amministrativamente sanzionato (sospensione della patente di guida, del  passaporto, del permesso di soggiorno per motivi di turismo). Più in generale, come ricorda Corleone, è tornata in vigore una legge di venticinque anni fa, la Iervolino-Vassalli, maturata in piena “guerra”. Inoltre, il decreto governativo che ha messo mano alla normativa dopo la sentenza della Consulta, il 36/2014, non ha distinto tra droghe leggere e droghe pesanti in tema di “trattamento sanzionatorio del piccolo spaccio”, punendo da sei mesi a quattro anni la “fattispecie di minor allarme sociale” (le parole sono del Servizio studi della Camera dei Deputati).

È il motivo per cui il cartello di associazioni che edita ogni anno il “Libro bianco sulla legge sulle droghe” ha avanzato due proposte di legge “per il cambio di passo” -punendo la vendita e non il consumo, abbassando le pene e proponendo misure alternative al carcere per i tossicodipendenti- mentre alla Camera, a far data dalla fine del novembre scorso, è ripartita l’analisi parlamentare di dieci proposte di legge concernenti le “Disposizioni in materia di legalizzazione della coltivazione, della lavorazione e della vendita della cannabis e dei suoi derivati”. Due questioni -la riforma del testo unico del 1990 e la legalizzazione della cannabis- che per Grazia Zuffa del Forum Droghe devono “assolutamente procedere insieme”.
Per i professori Piero David e Ferdinando Ofria -economisti di formazione che insegnano presso l’Università degli Studi di Messina- il traguardo della legalizzazione rappresenterebbe del resto un “buon affare per i conti pubblici”. “In primo luogo ciò rappresenterebbe una drastica riduzione delle spese di repressione -spiegano Ofria e David ad Altreconomia-, che ogni anno, per le sole droghe leggere, ammontano a oltre 570 milioni di euro tra carcere, ordine pubblico e operato della magistratura”. Accanto a questo risparmio si aggiungerebbe il gettito proveniente dalla vendita delle sostanze. “Per la sola cannabis, che, stando alla Relazione sui dati relativi allo stato delle tossicodipendenze in Italia 2015, conta 4,5 milioni di consumatori -sostengono i curatori dello studio- stiamo parlando di una forbice che va dai 5,2 ai 7,9 miliardi di euro, ogni anno, di entrate, applicando un’aliquota del 75% simile a quella in vigore per i tabacchi”. A ciò andrebbe ovviamente sottratta la quota rappresentata dai “rischi sanitari” dovuti al consumo di sostanze comunque delicate. Ma, come ricorda Zuffa, “è nell’illegalità che è più facile disattendere norme di precauzione legate a purezza o concentrazione del principio attivo”. Ofria e David hanno fatto anche un altro importante confronto, analizzando l’andamento dei furti nella contea di Denver -la capitale del Colorado-, misurato dal Dipartimento di polizia competente. A partire dal 2014, dopo la legalizzazione, si assiste a un’inedita diminuzione dei furti. La “prova” che alla legalizzazione della cannabis non è corrisposta alcuna tempesta penale, come invece sostenuto dai detrattori.

L’occasione è quindi da cogliere tenendo a mente l’incipit di un rapporto del 2014 a cura dell’Expert Group on the Economics of Drug Policy della London School of Economics e sottoscritto da cinque premi nobel all’Economia: “La ‘guerra alla droga’ ha prodotto risultati negativi e danni collaterali enormi. Questi includono l’incarcerazione di massa negli Stati Uniti, le politiche fortemente repressive in Asia (in Thailandia c’è la pena di morte per la cessione di sostanze stupefacenti, ndr), diffusa corruzione e destabilizzazione politica in Afghanistan e Africa Occidentale, efferata violenza in America Latina, un’epidemia di HIV in Russia, un’acuta carenza globale di farmaci per il dolore e la propagazione di sistematiche violazioni dei diritti in tutto il mondo”. —

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