Ambiente / Attualità
Le dighe di Webuild (Salini Impregilo) e gli impatti sui diritti e sull’ambiente
Una ricerca indipendente ha confrontato la “narrativa sostenibile” della multinazionale italiana delle costruzioni con le denunce e le criticità emerse nel corso degli anni in merito agli impatti ambientali e sociali degli sbarramenti realizzati in Africa, Asia e America Latina. A partire dal caso della diga Gibe III in Etiopia
“Tutti possono dire cose sciocche. Ci sono cinque milioni di persone che credono che la Terra sia piatta. E votano anche”. Così Pietro Salini, amministratore delegato di Webuild, rispondeva a un giornalista italiano in merito alle preoccupazioni sollevate dalle organizzazioni della società civile sugli impatti controversi della diga Gilgel Gibe III, costruita dalla società italiana lungo il corso del fiume Omo in Etiopia. Secondo diversi ricercatori, giornalisti e organizzazioni per la giustizia ambientale la diga avrebbe privato dei mezzi di sussistenza centinaia di migliaia di indigeni che vivono a valle dell’impianto. Tuttavia nel proprio Rapporto di sostenibilità 2016 la società italiana affermava che “Gibe III è stato progettato e costruito con grande attenzione agli effetti sulle comunità locali, al fine di mitigarne gli impatti e potenziarne i benefici”.
Questa citazione di Pietro Salini apre lo studio indipendente “Counter-reporting sustainability from the bottom up: the case of the construction company Webuild and dam-related conflicts” realizzato da Antonio Bontempi, Daniela Del Bene e Louisa Jane Di Felice, ricercatori che si occupano di ecologia politica, economia ecologica, complessità e giustizia ambientale e che lavorano rispettivamente presso il dipartimento di Geografia dell’Università autonoma di Barcellona (Uab), l’Istituto di Scienze e tecnologie ambientali della Uab e l’Università IT di Copenhagen. La loro ricerca mette a fuoco un secolo di storia di dighe “made in Italy” costruite in tutto il mondo, analizzando 38 conflitti ambientali legati ad altrettanti sbarramenti costruiti dal gruppo Webuild (già Salini Impregilo) ricorrendo alle teorie della giustizia ambientale.
Quali sono le motivazioni che vi hanno spinto a concentrare la vostra ricerca su Webuild e sulla “storia” di Salini Impregilo?
AB, DDB e LJDF La nostra ricerca nasce all’Università autonoma di Barcellona, dove è stato sviluppato nel corso degli ultimi dieci anni l’Atlante mondiale della giustizia ambientale (EJAtlas): un database in formato mappa online che raccoglie informazioni sui conflitti ambientali nel mondo e che a oggi documenta più di 3.700 casi di conflitti di svariata natura, legati all’estrazione, all’uso e allo smaltimento di risorse, inclusi terra, acqua ed energia. L’idea della ricerca è nata documentando un caso in particolare, quello della diga Gilgel Gibe III, che ci ha colpito molto essendo un impianto di grandi dimensioni che non solo ha modificato sensibilmente l’ecologia dei sistemi idrici della regione ma ha anche portato, nel giro di pochi anni, sull’orlo della fame e della miseria almeno 16 distinte tribù aborigene che vivevano in quei luoghi da millenni. All’epoca scoprimmo poi che Gibe III non era l’unica diga controversa tra quelle costruite da Salini Impregilo e censite nell’EJAtlas. Sulla mappa erano presenti altri casi (purtroppo) famosi. C’era quello dell’impianto di Chixoy in Guatemala, costruito negli anni Ottanta del Novecento nel pieno della guerra civile e che portò all’eliminazione di circa 400 membri delle comunità indigene che si rifiutarono di lasciare le proprie terre per fare spazio al bacino. Oppure quella del complesso Highlands water project in Lesotho, in cui l’impresa è stata condannata per corruzione. O ancora El Quimbo in Colombia, un disastro ambientale annunciato e dove gli oppositori locali vengono ancora criminalizzati. Fu così che abbiamo iniziato a pensare che uno studio comparativo dei casi di conflitto legati a una stessa multinazionale fosse un approccio innovativo nei campi “acerbi” dell’ecologia politica e della giustizia ambientale.
Dove sono esplosi i conflitti ambientali?
AB, DDB e LJDF Webuild è il risultato di numerose fusioni aziendali avvenute durante più di un secolo di storia. Il gruppo è presente soprattutto in Africa, Asia e America Latina e la costruzione di dighe è uno dei suoi fiori all’occhiello: complessivamente hanno costruito più di 300 impianti, per un totale di quasi 53mila MW di potenza installata. Fra questi, ne abbiamo selezionati 38 per i quali avevamo trovato fonti davano notizia di aspetti particolarmente conflittuali o controversi. Con l’eccezione di due casi, tutti i progetti analizzati si trovano in Paesi africani, dell’Asia meridionale e occidentale e in America Latina. Ci teniamo a precisare che i casi selezionati sono quelli per cui abbiamo raccolto fonti che documentano problematiche di diverso genere. Ciò non toglie che altre dighe che non abbiamo incluso nell’analisi non siano problematiche, conflittuali o oggetto di dibattito o contesa.
Ci sono elementi di continuità, oltre alla critica alla diga?
AB, DDB e LJDF Le dimensioni di insostenibilità che abbiamo trovato non riguardano solo aspetti ambientali. Andiamo da problemi strutturali come nel caso della diga di Mosul in Iraq, voluta da Saddam Hussein ai tempi della guerra contro l’Iran (l’impianto è stato inaugurato nel 1986, ndr), che da anni è rischio di cedimento e richiede costante lavoro di manutenzione, fino a conflitti geopolitici scatenati dagli impianti. Frequenti sono le denunce in cui il progetto idroelettrico genera povertà, non solo materiale, per la perdita di mezzi di sussistenza di chi nei dintorni della diga ci viveva, ma anche elettrica, paradossalmente. Molti progetti arrivano invece a toccare nel profondo i temi legati alle dimensioni riconosciute nella letteratura della giustizia ambientale, quali riconoscimento e coinvolgimento delle popolazioni locali nel processo di costruzione, o di giusta distribuzione dei costi e benefici dei progetti di sviluppo, violazioni di diritti umani, violenza, criminalizzazione del dissenso. Altre categorie ricorrenti riguardano l’insostenibilità finanziaria dei progetti, ingiustizie sul lavoro, casi di corruzione, oltre, ovviamente, agli impatti ambientali.
E come si è posta l’azienda davanti alla nascita dei diversi conflitti?
AB, DDB e LJDF Le fonti che abbiamo raccolto ci dicono poco sul comportamento dell’impresa nelle dinamiche dei conflitti. Su questi aspetti l’unica fonte di informazione è la stessa Webuild. Infatti l’altra metà della nostra ricerca costituisce l’analisi delle narrative corporative. Più specificatamente, le dichiarazioni della società sui suoi canali di comunicazione: sito internet, pubblicazioni e report di sostenibilità. Per Webuild le sue opere rispettano sotto tutti gli aspetti -sociale, economico e ambientale- gli impegni assunti in materia di sostenibilità. Fanno parte del Global compact delle Nazioni Unite, hanno tutte le certificazioni ISO del caso e i loro report rispettano tutte le linee guida internazionali che regolano la responsabilità sociale. A questo punto, una volta raccolto tutti i dati, ci siamo focalizzati su una domanda: che valore hanno i quadri normativi di responsabilità sociale d’impresa se sono certificazioni di enti terzi pagati dalle imprese, oppure addirittura autocertificazioni delle stesse corporazioni che sono oggetto di valutazione? Il nostro articolo ha quindi suscitato la reazione pubblica di Webuild.
Come ha reagito la società?
AB, DDB e LJDF Attraverso dei commenti all’articolo, pubblicati poi sul sito del Business & human rights resource center. Nella risposta l’impresa solleva perplessità sull’intera validità della ricerca, sui contenuti, metodologie e risultati. Confermano di rispettare e aver rispettato tutti i quadri normativi e le linee guida sulla responsabilità sociale d’impresa, concludendo che quello che abbiamo cercato di fare è dipingere una versione distorta della realtà allo scopo di danneggiare la loro immagine. Non è mancata una nostra risposta pubblica, scritta, sempre tramite la Ong, dove spieghiamo che quello che abbiamo fatto, l’abbiamo fatto al semplice scopo di sollevare delle domande. Non per costruire una versione della realtà ma per mettere in discussione quella dominante. Vengono prese in considerazione le voci delle comunità interessate? Come? Che cos’è una fonte affidabile o veritiera? Chi ha l’autorità e legittimità di dire qual è la verità? Così facendo, possiamo restituire la complessità e politicizzare il quadro. La Ong ha poi invitato Webuild a commentare ma la società ha rifiutato di rispondere ulteriormente.
Perché secondo voi è importante questa ricerca?
AB, DDB e LJDF Il motto di Webuild è “Costruiamo valore”. Anche noi siamo intenzionati a farlo, e siamo convinti che il nostro lavoro abbia valore accademico, sociale e morale. Dal punto di vista accademico, puntiamo a introdurre nelle facoltà di Economia e impresa le nozioni di giustizia ambientale e le teorie dell’ecologia politica, alimentando così il dibattito critico sui meccanismi di responsabilità sociale d’impresa contemporanei. A livello sociale, nel nostro piccolo, speriamo di aver reso giustizia agli ecosistemi e alle popolazioni che soffrono l’imposizione dall’alto di mega-progetti di sviluppo, e aver amplificato la voce di chi denuncia abusi di diritti umani ad essi connessi. Non per ultimo, riteniamo che sia un dovere etico-morale mettere in dubbio versioni della realtà che implicano questioni di giustizia ambientale, specialmente essendo cittadini italiani che guardano a opere dal marchio “Made outside Italy”.
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