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Diritti / Inchiesta

L’asilo negato in questura: ecco le prove degli ostacoli alla procedura

Alle persone che vogliono presentare domanda di protezione vengono richiesti documenti integrativi: dall’ospitalità al certificato di nascita dei figli. Prassi illegittime rivelate da numerose questure dopo un accesso civico di Altreconomia

Tratto da Altreconomia 253 — Novembre 2022
A Milano nel corso del primo semestre 2022 sono state 3.342 le persone che hanno formalizzato l’istanza di protezione internazionale. Erano state 3.311 in tutto il 2021 © Fotogramma

Numerose questure d’Italia riconoscono di ostacolare l’accesso alla procedura di protezione internazionale, complicando l’esercizio del diritto d’asilo sancito dalla Costituzione e contraddicendo la normativa in vigore. Lo fanno pretendendo ad esempio “prove” di ospitalità che un richiedente asilo appena arrivato in Italia con le proprie gambe e non inserito in accoglienza non potrà mai avere, o addirittura certificati di famiglia in caso di figli minori al seguito tradotti e “legalizzati” dalle ambasciate di quei Paesi da cui le persone stanno fuggendo. E tutto ciò avviene nonostante queste prassi illegittime volte a complicare l’accesso alla procedura e all’accoglienza siano già state sanzionate dai Tribunali, perché “iniziative repressive” e “illogiche”.

È il quadro che emerge dalle risposte fornite dalle stesse questure a un’istanza presentata in estate da Altreconomia tramite lo strumento dell’accesso civico generalizzato. Il cuore della richiesta -oltre ai dati sulle domande al primo semestre dell’anno- erano proprio le procedure utilizzate dagli uffici: dai documenti eventualmente richiesti alle persone passando per il servizio di mediazione linguistica e culturale più o meno garantito, dalla presenza di richiedenti costretti all’addiaccio al di fuori delle questure in attesa di essere ricevuti alla possibilità di farsi assistere da un avvocato. I riscontri ricevuti tra luglio e ottobre 2022 rappresentano un buon campione, avendo superato il 70% delle questure distribuite sul territorio nazionale e interpellate via Pec.

Prima di esaminare i riscontri è utile però ricordare le “regole” stabilite dalle direttive europee e fatte proprie dal nostro ordinamento. Queste prevedono infatti che la richiesta di asilo vada presentata dall’asilante all’ufficio di polizia di frontiera all’atto di ingresso nel territorio dello Stato oppure alla questura “competente” in base al luogo di dimora. Gli Stati possono sì “esigere” che le domande vengano fatte “personalmente dal richiedente e/o in luogo designato” ma allo stesso tempo è previsto che anche autorità non considerate “competenti per la registrazione” debbano accoglierle, e che la registrazione venga “effettuata entro sei giorni lavorativi dopo la presentazione”. Gli Stati membri non possono “esigere documenti inutili o sproporzionati né imporre altri requisiti amministrativi ai richiedenti prima di riconoscere loro i diritti conferiti, per il solo fatto che chiedono protezione internazionale”, recita in maniera chiarissima la direttiva 2013/33/UE (la cosiddetta “Direttiva accoglienza”). Rifiutare dunque in modo assoluto o permanente una domanda d’asilo è illegittimo, così come considerare “soggiornante illegale” la persona a cui è stata impedita la presentazione. Le questure dovrebbero quindi limitarsi a ricevere la “manifestazione della volontà di chiedere asilo” e a procedere di lì a poco alla sua “formalizzazione” attraverso la compilazione dell’apposito modulo (C3). Eppure accade tutt’altro.

Prendiamo il caso di Pordenone, dove la questura, rispondendo per mano del vicario, ha scritto nero su bianco che gli stranieri che manifestano la volontà di chiedere protezione asilo “vengono invitati a formalizzare l’istanza” anche tramite il “deposito della comunicazione di ospitalità”. L’avvocata Caterina Bove del foro di Trieste, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (asgi.it), ha buona memoria: “La questura di Pordenone è la stessa che non più tardi di quattro anni fa è stata duramente contraddetta dal Tribunale di Trieste (Sezione specializzata in materia di immigrazione) proprio per questa prassi”. E cita un passaggio di quell’ordinanza: “La pretesa che uno straniero, il quale si dichiari da poco entrato clandestinamente in Italia, debba avere a sua disposizione una dimora intesa quale ‘autonoma sistemazione’ al fine di presentare domanda di protezione internazionale è illegittima, ma è ancor prima illogica. Si fatica invero a comprendere come questo soggetto […] possa procurarsi una ‘autonoma sistemazione’ senza esporre altri alla commissione di reati di favoreggiamento”. Il Tribunale di Trieste era andato giù pesante: “Qualche dubbio quindi si nutre […] sul fatto che la questura di Pordenone possa legittimamente proseguire ‘nella ricezione e trattazione delle istanze di riconoscimento presentate da richiedenti per i quali risulti comprovato, nei modi anzidetti, il requisito della dimora in questo territorio provinciale, per come sopra delineato’, in quanto, agendo in tal modo, potrebbero risultare omessi atti doverosi dell’ufficio stesso”. L’omissione di atti d’ufficio è un reato.

Le istanze per il rilascio della protezione speciale presentate al questore di Roma nei primi sei mesi del 2022 sono state673. Erano state 144 in tutto il 2021

La cosa non sembra preoccupare troppo nemmeno la questura di Alessandria. Anche questa, infatti, ha fatto sapere di aspettarsi la dichiarazione di ospitalità oltre ai certificati attestanti i legami parentali “già in possesso” delle famiglie con minori. Peccato che la questura sia stata già stroncata dal Tribunale ordinario di Torino nel maggio 2020, in merito a una causa promossa dall’avvocato Maurizio Veglio (anche lui socio Asgi): “Non è legittimo l’operato della questura di Alessandria -recita l’ordinanza- che non ha proceduto alla registrazione della domanda sulla base dell’omessa produzione di documentazione non prevista da alcuna normativa”. Ma la prassi illegittima di pretendere la dichiarazione di ospitalità continua. Abbiamo il riscontro formale che questo accade anche a Reggio Emilia, a Rovigo, a Sassari, a Siena, a Siracusa, a Taranto, alla questura del Verbano Cusio Ossola, ad Aosta, a Caltanissetta, a Como, a Ferrara, a Forlì, a Nuoro, a Lecce, a Modena, a Palermo (che, come Bergamo, non permette la presenza di un avvocato), a Pesaro Urbino, a Napoli. A Varese, nel tipico stile italiano per cui ciascun ufficio fa per sé, viene richiesta la dichiarazione di ospitalità ma sentita la prefettura, “in via eccezionale”, possono essere “accolte le istanze anche da persona senza fissa dimora”. Come se non fosse la legge a prevederlo. 

Il Tribunale di Torino lo aveva ribadito in maniera chiara: “Deve essere intesa come presupponente, al fine della presentazione della domanda di protezione, una semplice situazione di transeunte dimora, anche caritatevole, come tale sufficiente per far scattare l’obbligo di accettare la richiesta di registrazione”. Basta cioè “trovarsi fisicamente nel territorio di un Comune”. A Bari si richiede la “semplice autodichiarazione di dimora” mentre a Brindisi “viene richiesto un domicilio ma va bene anche l’autodichiarazione” (sic). La questura di Caserta (come Lucca e Mantova) scrive di “consentire la semplice autodichiarazione di dimora”, Imperia di un “domicilio”, mentre La Spezia si aspetta la “comunicazione di ospitalità” ma solo per “snellire la raccolta o documentazione amministrativa al solo fine di evitare l’invio a mezzo di raccomandata o Pec”. A Messina è richiesta la dichiarazione di ospitalità o un “contratto di locazione”. Altra regola vige a Novara: al richiedente viene richiesto di indicare un luogo “di dimora o domicilio” che verrà poi “verificato dallo scrivente ufficio con gli opportuni controlli”. Si può anche giocare con gli avverbi, come fa Pisa, che richiede “generalmente” e “ove disponibile” la dichiarazione di ospitalità. A Roma è richiesto di “dimostrare di possedere una dimora mediante esibizione di cessione di fabbricato, autodichiarazione, etc”. 

Poi c’è la questione della copia dei certificati di nascita dei figli minori, tradotti e “legalizzati” dall’ambasciata del Paese di origine. Varese non li richiede, rispettando la legge, perché “altrimenti verrebbe meno la ratio della richiesta della protezione stessa”, spiega giustamente. Sassari invece li richiede, così come Siracusa (“È prassi”), Aosta, Caltanissetta, Caserta, Isernia (dove li chiedono ma “non è motivo ostativo all’accoglienza”), La Spezia, Nuoro, Potenza. Da Reggio Calabria hanno fatto sapere che “non vengono richiesti in maniera perentoria (sic) i certificati di nascita o di matrimonio perché essendo persone provenienti dagli sbarchi non ne sono in possesso quindi non sono in grado di produrli”. Quasi ovunque le risposte sono segnate da passaggi molto distanti dalla realtà. 

È il caso di Milano, dove è stato documentato (anche attraverso dei video, si veda un servizio di Fanpage del luglio 2022) come le persone siano state costrette a dormire di notte all’esterno degli uffici della questura di via Cagni, sperando di entrare il giorno dopo in buona posizione, non essendoci la possibilità di prendere un appuntamento, e come molte di loro abbiano iniziato a ricevere persino ordini di allontanamento, con tanto di sanzione di 100 euro. Interpellato sul punto, il questore Giuseppe Petronzi ha fatto riferimento invece ad “aree e locali confacenti alle attuali esigenze”, rivendicando l’installazione di “tensostrutture di riparo” e la disponibilità di “generi di ristoro durante l’attesa”. Come se si trattasse di “utenti” da “smistare” -parole che si ritrovano in numerose risposte- e non persone alle quali garantire l’esercizio di un diritto costituzionale.

Come ha scritto Gianfranco Schiavone del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste su Altreconomia, “il diritto di asilo è innanzitutto poterlo chiedere: se questa possibilità non esiste o viene ostacolata si tratta di un diritto solo proclamato ma non accessibile”. È concorde l’avvocata Barbara Spinelli del foro di Bologna: “La più grave forma di violazione del diritto di asilo è rappresentata dalle prassi illegittime, più o meno gravi e sistematiche, poste in essere dalle questure in tutta Italia, che ne ostacolano l’esercizio effettivo”. E continua: “Al contempo assistiamo anche a una gravissima compressione del diritto all’assistenza legale, il cui esercizio è garantito dalla legge per tutta la durata della procedura: impedire l’accesso degli avvocati all’Ufficio immigrazione, sia fisicamente sia eliminando caselle mail, sia negando ogni possibilità di interlocuzione alle volte anche con le rappresentanze istituzionali dell’avvocatura, è un chiaro segno che l’amministrazione apertamente discrimina gli stranieri, richiedenti asilo inclusi, nell’accesso all’esercizio di diritti fondamentali”. 

Questo “chiaro segno” non sarebbe emerso se le questure avessero preso alla lettera l’indicazione che il ministero dell’Interno ha dato loro in estate su come rispondere al nostro accesso, allegando tanto di circolare: date conto dell’“iter seguito” ma attenetevi “rigorosamente” a quanto “previsto dalla normativa vigente”, era stato l’input del Viminale. Qualcuno però è stato “sincero” -o non si è accorto del messaggio- e la realtà delle prassi illegittime è venuta a galla. 


DA ASCOLTARE

“Limbo”, il podcast che racconta il tempo sospeso dei migranti

Il Centro permanente per il rimpatrio di corso Brunelleschi, la questura di corso Verona, il Politecnico e la frontiera italo-francese in Val Susa. Che cos’hanno in comune questi luoghi di Torino e della sua area metropolitana? Sono luoghi in cui i diritti delle persone straniere vengono calpestati in nome di una politica di rifiuto ed esclusione. Ma il capoluogo piemontese non è un’eccezione. Che cosa dice del nostro Paese il “limbo” che vive chi si fa migrante per fuggire da guerre e povertà? “Limbo – Il tempo sospeso di chi si fa migrante è una serie podcast scritta da Silvia Baldetti e Luca Rondi prodotta da Engim Internazionale in collaborazione con Altreconomia, nell’ambito di “Semi – Storie, Educazione, Migrazioni e Impegno”, finanziato dall’Unione europea, attraverso la regione Piemonte, nel contesto del progetto “Mindchangers – Regions and youth for planet and people”. 

Limbo porta l’ascoltatore nei luoghi simbolo della città in cui lo “straniero” vede negati i propri diritti. Dal confine interno tra Italia e Francia, dove quotidianamente centinaia di persone vengono respinte e rischiano la vita nel tentativo di attraversare la frontiera, al Centro permanente per il rimpatrio, il “Brunelleschi”, dove il 23 maggio 2021 il giovane Moussa Balde si è suicidato. In quel luogo, Balde non avrebbe dovuto neanche entrarci. E poi, la questura di corso Verona dove le lunghe file di persone che aspettano di poter fare ingresso negli uffici raccontano la “mancata accoglienza”: non esiste un messaggio di benvenuto, per chi fugge da guerre e povertà, ma un muro di gomma contro cui le persone vedono infrangere il rispetto dei loro diritti fondamentali. Infine, l’accordo tra Politecnico di Torino e Frontex, l’Agenzia che è simbolo di queste politiche di esclusione. Torino non è un’eccezione. Questi luoghi sono simbolo di una “fortezza” che riguarda, a suo modo, ogni città italiana. Il podcast è disponibile su Spreaker e Spotify. Il montaggio è a cura di Border Radio.

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