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L’Alta velocità non conviene. Ecco il bilancio tra costi e benefici

A fronte di un investimento pubblico di 32 miliardi di euro in 11 anni, l’infrastruttura “veloce” non è in grado di restituire i vantaggi attesi. Secondo una ricerca, sarebbe meglio puntare sulla “capacità” delle linee esistenti

Tratto da Altreconomia 192 — Aprile 2017
Un “Frecciarossa” in arrivo alla stazione di Milano Centrale - http://www.rail-pictures.com

Si parte: il 2 marzo è stato assegnato il contratto per la progettazione e la realizzazione dei primi 15 chilometri della linea ferroviaria Alta velocità (AV)/Alta capacità (AC) tra Napoli e Bari, quelli tra il capoluogo campano e Cancello (CE). L’intervento ha un valore di 397 milioni di euro, pari al 6,4% del costo complessivo dell’opera, che al 31 dicembre del 2016 veniva stimato dal ministero delle Infrastrutture in 6,17 miliardi di euro. Italferr, società del gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, ha assegnato l’appalto a un inedito consorzio d’imprese formato da Salini Impregilo (60%) e Astaldi (40%), che sono rispettivamente il primo e il secondo tra i gruppi italiani nel settore delle costruzioni.
L’intervento è complesso: per raggiungere Bari da Napoli questa linea Av dovrà in qualche modo superare l’Appennino -e la tratta Bologna-Firenze, l’unica che lo fa, è la più costosa tra quelle realizzate a partire dagli anni Novanta, con un costo stimato di 68 milioni di euro a chilometro-. Ad oggi, inoltre, non è possibile nemmeno stabilire se verrà mai completata, perché il 43% del budget è senza copertura finanziaria.

Si parte, però, senza aver analizzato costi e benefici dell’ennesimo investimento pubblico sull’AV ferroviaria, che AC non è perché “ad oggi nessun treno merci ha mai usato la linea”, come sottolinea Paolo Beria, professore di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano e direttore del Laboratorio di politica dei trasporti dell’ateneo (http://www.traspol.polimi.it). Beria è autore, con Raffaele Grimaldi, di un’analisi su costi e benefici dell’Alta velocità in Italia, “un’analisi di carattere socio-economico”, spiega, che non guarda cioè ai bilanci di Trenitalia (la società del gruppo Fs che fa correre i treni) e di NTV spa, i due operatori che usano la rete, ma “ai vantaggi per gli utenti e per l’ambiente, con la riduzione delle esternalità negative legate, ad esempio, agli spostamenti effettuati in auto o in aereo”.

A undici anni dall’inaugurazione della Torino-Novara, il primo segmento dell’Alta velocità, e ad otto dall’apertura della Torino-Salerno, il risultato esposto nel paper di Beria e Grimaldi è chiaro: il rapporto tra benefici netti e investimenti (l’acronimo inglese è NBIR, Net Benefits Investment Ratio) è pari a 0,76. Questo significa che per ogni euro investito dal pubblico -complessivamente circa 32 miliardi di euro- ne siano tornati alla collettività i tre quarti, calcolati guardando agli effetti di una riduzione dei tempi di viaggio e di attesa, ma anche alla crescita dell’utenza e a una riduzione media delle tariffe legato alla presenza, dal 2012, di due operatori sulla linea. Solo considerando “l’effetto rete”, ovvero i vantaggi legati all’incremento del traffico anche su linee non Av, come la Firenze-Roma, si può arrivare a un indice di 1,01, che “non è granchè a fronte di un investimento di  32 miliardi -sottolinea Beria-. Cinque anni fa, in un altro lavoro, ci chiedevamo quanti passeggeri fossero necessari per avere un rapporto ottimale tra costi e benefici” spiega Beria: la risposta (altreconomia.it/il-flop-dellalta-velocita) era che forse la Milano-Bologna avrebbe saputo attirare una domanda adeguata, cosa che è poi avvenuta. Il flop maggiore resta, nel 2017 come nel 2012, quello della Torino-Milano, incredibilmente -è tutta in pianura- costata 54 milioni di euro a chilometro. Il rapporto tra beneficio netto e investimenti è 0,40.
Analizzando il caso italiano, Beria e Grimaldi scrivono che “il beneficio diretto legato alla velocità è marginale”, mentre più importante è quello legato a un aumento della “capacità”, il numero di tracce occupabili dai treni. A determinate condizioni, cioè, potrebbe essere più efficace un raddoppio o una velocizzazione delle linee esistenti, con interventi solo tecnologici. Un esempio, riportato anche nel paper, riguarda la Milano-Venezia, che è ancora in fase di progettazione nella tratta tra Brescia e Padova (costo stimato al 31 dicembre 2016, 8,74 miliardi di euro): “Quando esistono tanti centri a una distanza ridotta, com’è tra Brescia, Verona, Vicenza e Padova, non c’è differenza se un treno viaggia a 250 o a 300 chilometri orari -sottolinea Beria-. In questi casi, i potenziali benefici legati a un raddoppio della capacità lungo la linea esistente potrebbero essere pari a quelli dell’Av, ma con un investimento ridotto” sottolinea Beria.

È possibile, però, anche far peggio. Il docente del Politecnico definisce “un pasticcio indissolubile” la vicenda della nuova stazione fiorentina dedicata all’Alta velocità (altreconomia.it/lalta-velocita-sotto-firenze), in costruzione nel quartiere Belfiore: “Non serve una stazione Av separata dai binari del traffico regionale, perché si perderebbe l’‘effetto rete’, e i conseguenti benefici legati a un risparmio nei tempi di viaggio. Come potrebbe raggiungere le altre località della Toscana chi arriva a Firenze con le Frecce?” si chiede Beria. Anche Rfi -la società del gruppo Fs che gestisce la rete- è arrivata nel gennaio del 2017 a mettere in discussione l’utilità dell’opera, ma intanto è stata scavata una “buca” di quasi un milione di metri cubi.
Se dall’analisi socio-economica di Beria e Grimaldi si passa alla lettura dei bilanci si scopre che i problemi con l’Alta velocità stanno anche altrove. Nel primo semestre del 2016, ad esempio, per la prima volta le Frecce hanno registrato un “rosso” a bilancio, con ricavi in calo di 22 milioni di euro rispetto allo stesso periodo del 2015.

Nel 2016, 1,37 milioni di italiani hanno utilizzato treni regionali di Trenitalia. I pendolari dell’Alta velocità, nello stesso periodo, sono stati meno di 10mila

A incidere negativamente sui conti è una riduzione del 2,5% del “ricavo medio unitario”. Trenitalia ha cioè ridotto le tariffe per rispondere alla concorrenza dei treni Italo di NTV. E mentre pianifica una parziale privatizzazione della società, con la quotazione in Borsa del ramo d’azienda dedicato alla “lunga percorrenza”, un perimetro che oltre alle Frecce tiene dentro gli Intercity, l’amministratore delegato del gruppo Fs Italiane, Renato Mazzoncini, va in Senato (il 24 gennaio scorso) a chiedere allo Stato di “sussidiare” i treni Alta velocità usati dai pendolari, in particolare sulla Torino-Milano e sulla Napoli-Roma. Propone la sottoscrizione di un contratto di servizio, che permetta al gestore di coprire i costi delle corse nelle fasce orarie dedicate agli abbonati, che al mattino e alla sera arrivano ad occupare fino a nove posti su dieci. Un “contratto” come quello rinnovato a gennaio 2017 per dieci anni, che riguarda gli Intercity: fino al 2026, Trenitalia riceverà dal ministero delle Infrastrutture 3,64 miliardi di euro per garantire ogni giorno 108 corse (e dieci in più nei fine settimana), arrivando a coprire in un anno “25,1 milioni di chilometri-treno”.

“Non è stata fatta alcuna vera ‘gara’ -sottolinea il professor Beria-, e siccome tutta la lunga percorrenza verrà privatizzata si tratta di un ‘regalo’ anche ai futuri azionisti”. Che lo Stato continui a sostenere lo sviluppo industriale delle Fs è evidente anche guardando al Piano industriale 2017-2026 del gruppo: su 94,5 miliardi di euro di investimenti previsti, appena 23,2 (il 24,5%) sono in regime auto-finanziamento. Resta una domanda senza risposta: l’azionista unico, e principale finanziatore del gruppo, ha anche il potere di indirizzarne le politiche? Secondo il rapporto Pendolaria 2016 di Legambiente, diffuso a gennaio 2017, ogni giorno dello scorso anno 1,37 milioni di italiani hanno utilizzato i convogli regionali di Trenitalia, mentre i pendolari dell’Alta velocità sono meno di diecimila. Il Parlamento e l’opinione pubblica, però, hanno discusso più del paventato aumento del costo per gli abbonamenti Av, che non dei 412 chilometri di rete ordinaria che risulta “sospesa” per inagibilità dell’infrastruttura, o della riduzione complessiva del servizio Intercity, che nel 2010 copriva una distanza superiore del 20 per cento rispetto a quella prevista nel rinnovato contratto di servizio.

“Una soluzione plausibile per i pendolari sono dei buoni regionali veloci (RV), che costano, ma almeno danno benefici a tutti gli utenti; purtroppo, si è preferito ‘forzare’ questi clienti sui segmenti di mercato, riducendo l’offerta Intercity e ‘spezzando’ i RV” sottolinea Beria. Oggi che il costo degli abbonamenti Av diventa per molti utenti insostenibile, siamo di fronte a un corto-circuito. Sarebbe stata forse sufficiente un’analisi costi-benefici, prima degli investimenti, per valutare anche opzioni alternative. E invece nel 2015 (ultimo bilancio disponibile) Trenitalia ha speso 6 milioni di euro per ristrutturare le carrozze dei vecchi Ic, e 5 milioni per modernizzare le carrozze Bistrot dei convogli Frecciarossa ETR 500. Diciotto ETR 1000 sono costati 623 milioni di euro; con la stessa cifra, avrebbe potuto acquistare cento complessi Jazz dedicati al trasporto regionale (ne sono stati comprati  41, investendo 250 milioni di euro).

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