Cultura e scienza / Opinioni
L’agricoltura dovrebbe imparare dagli Inuit
In Groenlandia alcune popolazioni seppero adattarsi a un ambiente diverso, sopravvivendo. Oggi il modello agricolo va nella direzione opposta. La rubrica a cura di Riccardo Bocci della Rete semi rurali
Un articolo uscito sulla rivista New Scientist nel 1994 (“Rigide culture caught out by climate change”) merita di essere riportato all’attenzione per la sua attualità nel dibattito sui cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità e la necessità di realizzare una transizione delle nostre società verso modelli più sostenibili. L’articolo raccontava la storia della Groenlandia tra il 1100 e il 1500, presa come parabola della situazione attuale. A quei tempi vivevano in questa terra sia popolazioni di Inuit, sia norvegesi, ma il crollo delle temperature intorno a metà del Trecento ha lentamente eroso la capacità agricola del territorio. Nel giro di un centinaio di anni sull’isola non era rimasto più nemmeno un norvegese.
Potrebbe sembrare un processo simile a quello che stiamo vivendo, in cui la forza e l’ineluttabilità dei cambiamenti climatici non lasciano spazio ad altra strategia che non la fuga su altri pianeti o il crollo.
In realtà l’articolo, citando il fallimento della strategia dei norvegesi (che hanno continuato a sfruttare la terra con il pascolo intensivo e hanno costruito cattedrali confidando nell’intervento divino per risolvere il problema) fa presente che gli Inuit hanno continuato a vivere in Groenlandia malgrado il crollo delle temperature e dei sistemi agricoli. Questi hanno adattato il loro sistema di vita alle nuove condizioni, dedicandosi alla caccia e alla pesca, e ancora oggi abitano quelle terre.
La morale è evidente: società rigide che non si adattano, invertendo la loro rotta, non riescono a evitare il collasso. Ma questa non è una strada obbligata, la risposta adattativa e flessibile degli Inuit resta come monito a ricordarcelo.
L’articolo “Una cultura rigida colta di sorpresa dai cambiamenti climatici” è stato pubblicato sulla rivista New Scientist nel 1994.
L’abilità e la volontà di una società di rispondere all’ambiente in cambiamento sono le precondizioni fondamentali per determinare la sua capacità di sopravvivenza. È necessaria, però, una reattività fatta di scelte individuali e collettive, in grado di darci la possibilità di produrre risposte di fronte alle incertezze ambientali, su cui non abbiamo una memoria storica personale che possa aiutarci. Conoscenza e innovazione sono parte della soluzione, ma all’interno di processi collettivi di apprendimento fortemente ancorati nei contesti locali.
Purtroppo in agricoltura stiamo andando nella direzione opposta: riducendo la capacità innovativa degli agricoltori (che sono i primi soggetti in grado di percepire i cambiamenti nei luoghi in cui operano), aumentando la loro dipendenza da input chimici e tecnologie esterne alle aziende, spostando la produzione di conoscenza dal settore pubblico a quello privato. Stiamo sostenendo sempre più un modello scientifico definito come cattedrale, in cui il centro produce ricerca e innovazione con cui irraggia la periferia, dove si fanno le prove di adattamento attraverso il cosiddetto trasferimento tecnologico.
La nostra fede nell’innovazione è talmente forte che una parte influente della società la vede, in maniera ideologica e acritica, come la soluzione a qualsiasi problema. Senza alcuna necessità di invertire la rotta, di mettere in discussione la nostra epistemologia, le pratiche tecnologiche e organizzative, i nostri sistemi di apprendimento, i nostri sistemi istituzionali e, per finire, le politiche. Cambiare non è facile, ma non è più rimandabile. Sono passati 28 anni dall’articolo di New Scientist, i dati e le evidenze empiriche che abbiamo accumulato in questo periodo testimoniano in maniera netta il baratro che abbiamo davanti, ma ancora non abbiamo risposto alla domanda ineludibile: saremo capaci di evolvere e adattarci come gli Inuit o faremo la fine dei norvegesi in Groenlandia?
Riccardo Bocci è agronomo. Dal 2014 è direttore tecnico della Rete Semi Rurali, rete di associazioni attive nella gestione dinamica della biodiversità agricola
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