Finanza / Opinioni
L’affare della rete Tim e la subalternità dello Stato alla finanza
Perché impiegare circa 2,2 miliardi di euro, a cui abbinare magari l’ingresso di Cassa depositi e prestiti e del fondo F2i, partecipato dalla stessa Cdp, per restare comunque minoranza all’interno di una società decisamente strategica che possiede la rete italiana? La risposta del Governo Meloni non è convincente, osserva Alessandro Volpi
C’è una domanda che sorge spontanea di fronte alla decisione del Governo Meloni di entrare con una partecipazione del 20% nella Netco che acquisirà la rete di Tim. A che cosa serve impiegare circa 2,2 miliardi di euro, a cui abbinare magari l’ingresso di Cassa depositi e prestiti e del fondo F2i, partecipato dalla stessa Cassa, per restare comunque minoranza all’interno di una società decisamente strategica che possiede la rete italiana?
La risposta data da Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti è stata chiara ed è riassumibile nella volontà di esercitare un’efficace azione di indirizzo e di controllo. “Per assicurare il conseguimento degli obiettivi del piano industriale” e “adeguati poteri in capo al ministero dell’Economia e delle finanze di monitoraggio sulla gestione e sui meccanismi di governance, ai fini del perseguimento degli obiettivi di sviluppo e potenziamento di NetCo in materia di rilevanza strategica e sicurezza nazionale, anche in caso di mutamento della compagine azionaria”. Questo si legge nella bozza di accordo tra il ministero dell’Economia e il fondo Kkr, operatore internazionale di private equity, che sarà l’acquirente di Tim e che sta trattando il prezzo con Vivendi, l’attuale principale azionista.
Ma questa motivazione non è convincente. Lo Stato italiano, attraverso forme e veicoli diversi, possiede partecipazioni rilevanti in numerose società, dove in molti casi nomina i vertici e ha un peso decisivo nella struttura proprietaria. Basti pensare a Eni, a Enel, a Mps, dove è persino il socio di maggioranza assoluta. Nonostante una simile presenza, però, appare realmente difficile individuare una strategia industriale pubblica nella gestione di società di questo tipo. Si è visto con chiarezza nella vicenda degli extra-profitti energetici e bancari: la presenza pubblica non si è tradotta in un beneficio per la filiera dei prezzi o dei tassi di interesse a vantaggio del sistema Paese ma ha significato soltanto una partecipazione agli utili e ai dividendi.
In altre parole, lo Stato azionista non è riuscito negli ultimi anni a impostare politiche industriali ma si è comportato, a tutti gli effetti, come un socio finanziario mutuando le linee di conduzione societaria impostate dai grandi fondi con cui ha condiviso l’azionariato. L’obiettivo principale è sempre stato quello della remunerazione, a breve termine, del capitale investito dai soggetti finanziari a cui pagare dividendi succosi, a scapito di ogni altra prospettiva, compresa quella della riduzione dell’indebitamento.
A ben poco sono serviti strumenti come il golden power o i “patti parasociali”, il cui fine è stato pressoché unicamente quello di individuare i ben pagati membri dei consigli di amministrazione senza tuttavia stonare la predominante vena finanziaria. Tradotto: la presenza azionaria dello Stato non ha assolto a funzioni di politica industriale ma è servita a un esplicito esercizio di potere all’interno del sistema politico del Paese.
Nel frattempo, però i grandi fondi finanziari, come nel caso di Kkr, hanno assunto un ruolo crescente nel panorama delle strutture strategiche del Paese, acquistando quote azionarie non di rado in dismissione e, di conseguenza, finanziarizzando i criteri di gestione delle strutture acquisite. Ora, la scelta del Governo Meloni di partecipare all’acquisto di Tim, proprio accanto a un fondo che sarà determinante nella proprietà della rete del nostro Paese, e che è partecipato da due dei più grandi fondi mondiali come Vanguard e BlackRock, sembra non essere in alcun modo in grado di invertire questa tendenza alla subalternità dello Stato rispetto alle linee guida della grande finanza.
Come per le altre partecipate di Stato, il controllo strategico, a simili condizioni, rischia di rimanere una chimera. Per approdare a un cambiamento reale servirebbero due elementi a oggi molto difficili da porre in essere e costituiti da una vera rinazionalizzazione delle strutture strategiche per l’economia del Paese e dal conseguente abbandono di una logica finanziaria. Si oppongono a simili ipotesi, almeno in parte, le normative europee e le disponibilità finanziarie. Tuttavia, nel caso delle rete, data la sua centralità, entrambe le obiezioni potrebbero essere superate, mobilitando in maniera chiara il risparmio nazionale. Ma quella che manca, per muoversi in questa direzione, è soprattutto la volontà, e la cultura politica.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
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