Ambiente / Approfondimento
La via della depavimentazione per riguadagnare il suolo perduto. E ridurre i rischi idraulici
La rimozione degli strati impermeabili dovrebbe essere una priorità in molte parti d’Italia per contrastare gli effetti negativi della cementificazione, alluvioni in testa, e migliorare inoltre la qualità dell’aria e la biodiversità. A Prato è in corso una sperimentazione che può fare da apripista. L’intervento di Giacomo Certini e Giovanni Mastrolonardo, che insegnano Pedologia all’Università di Firenze
Il suolo è una delle risorse naturali fondamentali per l’umanità. Basti pensare che ancor oggi secondo la Fao è da lì che proviene, direttamente o indirettamente, il 95% di ciò che mangiamo.
Ma il suolo svolge molte altre funzioni oltre quella produttiva, tutte importanti per la nostra sopravvivenza e il nostro benessere psicofisico. Tra queste: è in grado assorbire le acque di precipitazione e depurarle, regolandone il flusso e rendendo meno probabili esondazioni e varie forme di dissesto idrogeologico; fornisce supporto alla maggior parte della biodiversità del Pianeta; promuove la decomposizione dei materiali organici, trattenendo gli inquinanti non degradabili e impedendo la diffusione di forme microbiche patogene; nasconde e conserva reperti archeologici e fossili animali e vegetali. Infine immagazzina in forma di sostanza organica una grandissima quantità di carbonio, come quello fissato dalle piante tramite la fotosintesi, impedendone il ritorno nell’atmosfera sotto forma di anidride carbonica e contrastando così il cambiamento climatico.
Eppure, nonostante questi suoi ruoli cruciali, il suolo è spesso trascurato, maltrattato, degradato, e sembra non essere percepito come qualcosa di prezioso, come invece accade per altre risorse naturali come, ad esempio, l’acqua.
Addirittura, come sa bene chi legge questa rivista e i suoi libri, il suolo viene “consumato”. Sì, consumato, perché si tratta di una risorsa finita e non rinnovabile. Tecnicamente consumare un suolo vuol dire imporgli una copertura artificiale continua e impermeabile (di cemento, asfalto, etc.).
Questo implica trasformarlo da un sistema aperto, coinvolto cioè in continui scambi di energia e materia con l’atmosfera, a uno chiuso, sigillato, mero sostegno di manufatti, inabile a espletare le sue funzioni ecologiche.
Ad oggi, circa il 7,2 % del suolo italiano è stato consumato, e la corsa a consumarne ancora costruendo abitazioni, industrie, strade e altre infrastrutture non si arresta, nonostante la popolazione italiana sia ormai in diminuzione. Eppure, mai come ora servono suoli sani e fertili.
Siamo 8,2 miliardi sul Pianeta e la terra coltivabile pro-capite è 0,18 ettari (dimezzata dal 1961, secondo i dati dell’Onu).
Prendendo atto di queste problematiche, la Commissione europea ha approvato nel 2021 la “Strategia per il suolo per il 2030”, che stabilisce misure atte a proteggere e ripristinare i suoli dell’Ue. Uno degli obbiettivi generali più ambiziosi è quello di raggiungere un consumo netto di suolo pari a zero entro il 2050.
A questo fine, è richiesto ai singoli Stati membri di darsi degli obbiettivi interni ambiziosi e misurabili, per ridurre significativamente il consumo netto di suolo già entro il 2030. Si richiede anche di integrare la “gerarchia del consumo di suolo” nei piani comunali, dando precedenza alla salvaguardia del suolo nella pianificazione territoriale.
Secondo questa gerarchia, nel valutare se e dove fare una nuova opera, in ordine di priorità bisogna: per prima casa valutare se l’opera è proprio necessaria e, nel caso lo sia, evitare d’impermeabilizzare nuovo suolo. In secondo luogo, per la sua realizzazione riutilizzare dunque suolo già impermeabilizzato. Se questo non è possibile utilizzare quello di più scarsa qualità o già degradato e, comunque, ridurre al minimo l’impermeabilizzazione. Infine al consumo di suolo ritenuto necessario, associare misure di mitigazione e compensazione, che permettano di recuperare parte delle funzioni perse con il suolo consumato. Quindi, ad esempio, opere d’infiltrazione e raccolta dell’acqua piovana per la funzione di regimazione e conservazione dell’acqua, orti urbani in cassoni per la funzione produttiva, etc.
È questo il vademecum verso il consumo netto di suolo zero, dove l’intenzione non è quella di fermare qualsiasi nuova opera, ma valutare attentamente se questa è necessaria, come e dove farla e, nella peggior ipotesi, prevedere la rinaturalizzazione di altre superfici come compensazione.
Proprio in un’ottica compensativa, la depavimentazione, cioè la rimozione dello strato impermeabile che sigilla il suolo, può diventare un nuovo paradigma nella gestione territoriale in quei (rari) casi dove non ci sia alternativa al consumo di altro suolo.
In verità, la depavimentazione (depaving o desealing) sarebbe una pratica da attuare a prescindere in molte aree del nostro Paese, proprio per ridurre gli ormai evidenti effetti negativi del consumo di suolo passato. A partire dalle sempre più frequenti alluvioni, che si verificano più o meno sui soliti territori, non a caso quelli che hanno contemporaneamente valori elevati di impermeabilizzazione e di rischio idraulico.
In queste zone depavimentare significherebbe non solo maggiore infiltrazione di acqua nel suolo, ma anche riduzione dell’effetto “isola di calore urbana”, per il quale c’è un microclima più caldo all’interno delle città rispetto alle aree periferiche e rurali (con differenze fino a cinque gradi). Ciò per il raffreddamento imposto dall’acqua che evapora dal suolo o traspira dalla vegetazione, che nel contesto urbano “sigillato” è scarso. Qui, con la depavimentazione a cascata migliorerebbero anche la qualità dell’aria e la biodiversità.
Con questa strategia, un suolo virtualmente “morto” può essere recuperato a tutte quelle sue importanti funzioni che erano state azzerate dall’impermeabilizzazione. Un recupero lento ma inesorabile, soprattutto grazie alle forme di vita vegetali, animali e microbiche che in esso progressivamente si reinsediano.
Gli esempi di depavimentazione sono tanti nel mondo, soprattutto in Nord Europa e Nord America, pochi ancora in Italia. Interventi di questo tipo possono interessare sia grandi superfici, come interi quartieri e aree industriali dismesse, sia superfici di modesta dimensione, solitamente parcheggi sottoutilizzati.
La pavimentazione può essere rimossa totalmente o solo in alcuni punti, creando delle soluzioni di continuità di grandezza variabile in cui si riattiva lo scambio di gas e acqua tra il suolo e l’atmosfera e crescono le piante.
Ci sono anche diversi casi di iniziative nate “dal basso”, in cui cioè associazioni di cittadini si adoperano per la depavimentazione di aree di quartiere, comunque con il supporto delle amministrazioni locali dato anche l’alto costo dell’operazione. Tale costo deriva anche dalla gestione dello strato sigillante rimosso, che in molti casi deve essere smaltito in discarica. E non sempre il suolo che si riporta alla luce è sano e con buone caratteristiche fisiche o chimiche. Allora bisogna addizionarvi ammendanti e concimi, ed eventualmente sostituirlo parzialmente con altro suolo. Questi materiali vanno reperiti quanto più vicino possibile, per abbattere i costi di trasporto e dar luogo ad un’economia circolare, che possibilmente prediliga tutto ciò che è di risulta o di basso valore.
Una delle città italiane che più si sta impegnando nel recuperare a verde pubblico aree marginali e in parziale dismissione è Prato. L’amministrazione comunale ha da tempo intrapreso un percorso volto ad aumentare l’infrastruttura verde all’interno del tessuto urbano e renderla pienamente fruibile dalla cittadinanza tutta. In questo ambito, come gruppo di ricerca stiamo monitorando svariate caratteristiche del suolo di un parcheggio da poco deasfaltato e in fase di trasformazione in un parco pubblico (in figura “il prima e il poi”).
Quel che si vuole appurare è quanto questo suolo, rimasto “fuori dai giochi” per circa 50 anni, sia in grado di recuperare il pieno esercizio delle sue funzioni, a cominciare dalla capacità di supportare la crescita vegetale e l’attività biologica di una miriade di organismi.
Pur preliminari e quindi incompleti, i dati mostrano quanto sia stato importante aver addizionato al suolo un compost proveniente dai rifiuti organici urbani. E curiosamente è risultato utile avervi aggiunto una parte dell’asfalto rimosso, opportunamente frantumato e dopo averne appurata l’assenza di pericolosità, per il fatto di non rilasciare alcun composto tossico.
Esso aumenta infatti la capacità drenante del suolo, cioè la velocità di liberarsi dell’acqua in eccesso. Peraltro, così facendo viene ridotto parzialmente il costo dello smaltimento dell’asfalto rimosso, sempre in un’ottica di economia circolare.
Molta ricerca è ancora necessaria sulla tematica, per ottimizzare i risultati degli interventi di depavimentazione. Ma, insomma, la via è tracciata ed è necessario percorrerla senza alcuna esitazione: azzerare il consumo di suolo e recuperare il più possibile quello che è stato sigillato, affidandosi ai dettami della scienza per riportarlo quanto più vicino possibile alla naturalità a suo tempo perduta.
Giacomo Certini è professore ordinario di Pedologia presso il dipartimento di Scienze e tecnologie agrarie, alimentari, ambientali e forestali (Dagri) all’Università di Firenze. La sua variegata attività di ricerca attualmente riguarda soprattutto l’urbanizzazione e il consumo di suolo, l’impatto delle guerre sul suolo, gli effetti degli incendi sulle proprietà del suolo, il contributo della riforestazione sul sequestro del carbonio.
Giovanni Mastrolonardo è professore associato di Pedologia presso il dipartimento di Scienze e tecnologie agrarie, alimentari, ambientali e forestali (Dagri) all’Università di Firenze. Le sue attività di ricerca, insegnamento e divulgazione riguardano la gestione e le funzioni del suolo e il contrasto alle sue forme di degrado.
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