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La “versione di Draghi”: tra liberalismo-liberista e progressismo di segno nuovo

Il discorso con cui Mario Draghi ha chiesto la fiducia in Senato non contiene il programma di un esecutivo di transizione e neppure di emergenza. Si tratta di un testo impegnativo che, al di là dei richiami all’unità, ha rilevanti contenuti politici, per certi aspetti persino ideologici, veicolati attraverso il richiamo alla loro natura “oggettiva”. Il commento di Alessandro Volpi

Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, rende le comunicazioni sulle dichiarazioni programmatiche del Governo, 17 febbraio 2021 © governo.it

Il discorso con cui Draghi ha chiesto la fiducia in Senato non contiene certamente il programma di un esecutivo di transizione e neppure di emergenza. Si tratta di un testo impegnativo che, al di là dei richiami valoriali all’unità, ha rilevanti contenuti politici, per certi aspetti persino ideologici, veicolati attraverso il richiamo alla loro natura “oggettiva”; in altre parole il presidente del Consiglio incaricato presenta la sua visione del mondo suffragandola con una lettura “scientifica” dell’economia e della società che dovrebbe renderla accettabile ad un arco di forze di maggioranza così eterogeneo.

In realtà, come accennato, la “versione di Draghi” è decisamente di parte. Ha, in primo luogo, una chiara e non discutibile matrice europeista, fondata sull’euro, moneta capace di “migliorare” il Pianeta, che conferisce significato alle appartenenze nazionali, altrimenti assai afone e le colloca all’interno di un indispensabile Occidente atlantico. Crede in una dimensione della politica economica e del mercato del lavoro che deve essere selettiva; non si possono salvare tutte le aziende ma solo quelle che, secondo il mercato, hanno un futuro. Non è centrale quindi la difesa del posto di lavoro ma quella del lavoratore che deve essere accompagnato nelle fasi di espulsione dal processo produttivo con un assegno di ricollocazione e con sistemi di formazione continua; un modello, questo, storicamente tipico delle realtà anglosassoni.

La scuola, a cui è assegnato un ruolo centrale, dovrà assumere caratteri “tecnico-professionalizzanti”, con l’apertura alle innovazioni tecnologiche, mentre la sanità avrà i tratti della medicina diffusa con ospedali per acuti e presidi territoriali. La questione meridionale è tradotta nei termini dell’efficienza dell’amministrazione e della legalità e gli investimenti pubblici, ritenuti necessari, dovranno aprirsi alla “competenza” del privato, prima ancora che al suo contributo finanziario.

Il tema fiscale, ancora secondo Draghi, non può essere affrontato facendo ricorso a misure relative a singole imposte ma ha bisogno di essere definito nel suo insieme, magari affidando la stesura di una riforma complessiva ad un gruppo di tecnici. La riforma della Pubblica amministrazione e quella della Giustizia, nella sostanza, si traducono nella ricerca di una maggiore efficienza e di una maggiore velocità dei provvedimenti. Centrale appare anche una meritocrazia fondata sulle competenze acquisite attraverso una competizione individuale, resa possibile da forme di egualitarismo sociale. Su queste basi occorre “completare e integrare” il contributo italiano per il Recovery Plan, avendo chiaro che la parità di genere e la transizione ecologica sono due condizioni essenziali.

Alla luce di ciò non è facile qualificare il Draghi-pensiero che mescola una prospettiva di liberalismo-liberista ad un progressismo di segno nuovo in gran parte indotto dall’idea di un intervento statale, comunque, necessario. Certo non è facile neppure comprendere come questo impianto così complesso e “ideologico”, appunto, possa realmente, al di là dell’immediatezza della congiuntura, tenere insieme una coalizione di forze tanto estesa. Forse Draghi è davvero consapevole che la politica sia costretta a cambiare e non abbia elaborato, in maniera autonoma, i contenuti per farlo, dovendo quindi accettare una formula già confezionata. Il programma di Draghi disarticola il linguaggio delle contrapposizioni esistenti, rimpastando pezzi di culture della globalizzazione e della sua fase successiva e ponendo in essere un sistema di appartenenza che solo la sua biografia può interpretare. Come era prevedibile da oggi lo schema politico italiano contrapporrà i fan di Draghi ai suoi nemici. Assai più di quanto avvenne con Silvio Berlusconi.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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