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Diritti / Opinioni

La tragedia nella Rsa di Milano e quell’esclusione dai diritti del “popolo degli anziani”

© Amisha Nakhwa - Unsplash

Lo scenario in cui è avvenuto l’incidente di Via dei Cinquecento a inizio luglio riassume alla perfezione l’universo dei problemi del “sistema”. E della “regola” di dare in appalto a privati principi costituzionali di una frazione importante e crescente della popolazione. La trasparenza non più rinviabile. La riflessione di Gianni Tognoni

La tragedia della Rsa di Via dei Cinquecento a Milano -i sei morti, le tante persone colpite- è stata quasi diluita e riassorbita da quella molto più “attraente” delle cronache milanesi e nazionali di Santanchè e La Russa. È ormai considerata, salvo che per chi si ritrova nel ruolo di “vittima”, diretta o indiretta, parte della routine con cui si affrontano i giudizi su “incidenti” di cui accertare “eventuali” responsabilità, e relativi giudizi, criminali o amministrativi.

Anche l’annuncio di un possibile “lutto cittadino” è rapidamente scomparso: forse perché troppo compromettente in termini di suggerimento di attribuzione diretta di responsabilità all’autorità cittadina?

Non resterebbe che attendere con fiducia il chiarimento dei dettagli sui fatti e gli accertamenti giudiziari sulle responsabilità. Si sa che anche associazioni che già si erano organizzate e mosse ai tempi delle “stragi” in un’altra Rsa storica di Milano hanno dichiarato il loro interesse.

Con la fiducia di rito dovuta all’autorità giudiziaria, sembra tuttavia necessaria e possibile, e perciò urgente, una decisione operativa da parte delle autorità competenti, in piena trasparenza con la collettività cittadina, che è anche di fatto il modo più semplice e diretto per riconoscere, al di là della solidarietà proferita a parole, la volontà di una giustizia più di fondo, che può solo coincidere con la prevenzione di altri “incidenti” dovuti alle stesse cause di fondo (che non sono certo il meccanismo ultimo con cui si è generato il fuoco in una stanza).

I punti che seguono sono di fatto un contributo che motiva e indica le modalità per questa decisione, che tocca necessariamente e realisticamente tutto il “sistema Rsa”, almeno quello milanese. Lo scenario istituzionale e concreto della Rsa in cui è avvenuto l’incidente riassume alla perfezione l’universo dei problemi del “sistema”. O per meglio dire, andando più a fondo, della questione dei diritti umani e di cittadinanza costituzionale di una frazione importante crescente della popolazione italiana.

Formalmente la Rsa è di proprietà e responsabilità comunale, secondo una “normalità” ben nota. Perché gestione e responsabilità sono affidate a una cooperativa. Il mondo delle Rsa (e strutture simili) è, in modo crescente, e specificamente in Lombardia, nelle mani soprattutto di entità private (multinazionali o meno: veri colossi economici, totalmente autonomi, e contrattualmente intoccabili) e di altri attori privati (più o meno di lucro). Perché l’affidamento a “gestori” formalmente accreditati, nei modi più diversi, è la regola.

Non è questo il luogo per entrare nei dettagli. Le pubblicazioni sul tema sono tante e accessibili. Il punto necessario e urgente qui e ora è molto semplice: i diritti di vita e dignità non si appaltano, se non a condizioni assolutamente monitorate in misura della specificità dei bisogni che devono essere gli indicatori obbligatori della legalità dei contratti e delle pratiche.

Il “popolo degli anziani”, per le più diverse ragioni candidabile alle Rsa (comunali, o sanitarie, o miste), non è una frazione “residuale” e improduttiva della società, quasi una popolazione comparabile, ma “esclusa”, con meccanismi identici anche se apparentemente contrari a quelli applicati per i migranti. Eppure i suoi “membri” non sono riconosciuti come soggetti di diritti di cittadinanza, appartengono a un mondo parallelo, governato da logiche capovolte da quelle di una civiltà democratica, dove chi ha più bisogni specifici dovrebbe avere diritto a una “cura” che si fa carico della persona e non solo di un suo deficit o disabilità o malattia.

Gli “investimenti” per la vita degli anziani, come quelli per diversi comparti del sistema sanitario (dalla psichiatria, alla disabilità, dalla riabilitazione alla prevenzione), hanno meno a che fare con i costi e la complessità della tecnologia, e molto più con percorsi di cura che prevedono persone, e contesti assistenziali, con supplementi (e non carenze) di decoro, logistica, dignità. Lo si sa da sempre. Così come è ben nota la “normalità” con cui in questi ambiti l’incrocio tra le diseguaglianze e i diritti si traduce nella violazione “inevitabile” dei diritti. Naturalmente si continua ad affermarne il rispetto: a condizione, non detta, che ciò sia economicamente “sostenibile”. Da chi e come, e secondo quali criteri di valutazione, sono le variabili su cui si giocano i conflitti e i contratti, di competenza e di risorse, tra “gestori” che rispondono solo e rigidamente a interessi economico-finanziari e a connivenze politiche.

I punti che precedono sono il promemoria del contesto dell’incidente-crimine da cui è partita questa riflessione. Sarebbe ingenuo, più ancora che demagogico, chiedere che le cose cambino: sul rapporto tra un pubblico sempre più in difesa ed esitante e un privato che non si pone limiti, soprattutto in campi tanto redditizi (anche politicamente) come sanità e cura, si gioca uno degli snodi più conflittuali ed espliciti del modello di sviluppo in cui si vive. Non ci sono soluzioni in vista: e certo non è questo il luogo per discuterne.

C’è un diritto che non ha però bisogno del giudizio di un tribunale, e che corrisponde a un obbligo istituzionale delle autorità civii e sanitarie: quello della trasparenza informativa su quanto tocca direttamente la vita e la dignità delle persone di cui sono responsabili. L’antico habeas corpus è oggi traducibile, senza costi-investimenti aggiuntivi, in una visibilità precisa dei bisogni, e perciò delle risposte che si devono dare.

Questa visibilità epidemiologica contestualizzata è il primo diritto: imprescindibile, praticabile qui ed ora. Nelle riviste scientifiche più accreditate il nascondimento dei dati vitali su popoli a rischio o privati di diritto è qualificato come “statistical genocide”. Un crimine che non ha bisogno di giudizio: perché è “evidente”. Ha bisogno di giustizia: cioè di tradurre la visibilità della vita e dei bisogni delle persone (soprattutto laddove si incrociano con la diseguaglianza) in una loro adozione.

Una politica di trasparenza informativa a livello di tutte le comunità umane (civili e sanitarie) che hanno il dovere umano-costituzionale di includere la disabilità dell’età fragile può, e perciò deve, produrre mappe che mettano in evidenza qui e ora, con numeri, percentuali, qualifiche e contratti del personale, lo stato dell’accessibilità al diritto di dignità delle popolazioni di Milano. Giusto per trattare sul serio il diritto-dovere di “prendersi cura”. Non a parole.

I tecnici sanno bene che ciò è possibile, senza problemi. A meno che le autorità non lo vogliano: e allora lo dicano espressamente. Il lutto cittadino -o regionale- sarebbe allora giustificato: per la dichiarazione esplicita che alla parte più fragile della popolazione, come ai migranti, può capitare di essere imbarcata su barconi di cui è nota l’incertezza e la criminalità. E come per i migranti, il “traffico” è governato lucidamente da chi, privato e pubblico, ritiene che la vita nella dignità degli umani sia disposable, residuo indifferenziato, per tenere in ordine gli indicatori economici.

Gianni Tognoni, ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli

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