Economia
La speranza tradita – Ae 89
Repubblica Democratica del Congo: troppo ricca per una pace duratura Almeno sulla carta, il 2007 era atteso come l’inizio di una pace stabile: pochi mesi prima le elezioni definite “libere e trasparenti”, poi un nuovo Parlamento e infine un capo…
Repubblica Democratica del Congo: troppo ricca per una pace duratura
Almeno sulla carta, il 2007 era atteso come l’inizio di una pace stabile: pochi mesi prima le elezioni definite “libere e trasparenti”, poi un nuovo Parlamento e infine un capo di Stato finalmente “eletto dal popolo”. Invece rischia di essere l’ennesimo e consecutivo annus horribilis per la Repubblica Democratica del Congo (Rdc).
Quei “vagiti di democrazia” raccontati da questa rivista un anno fa restano il pianto di un popolo che cerca e chiede dignità (vedi Ae 78, in basso la copertina).
Il 6 dicembre 2006, Joseph Kabila giura sulla Costituzione come primo presidente eletto a suffragio universale.
È la fine della lunga transizione post-bellica, dopo un conflitto di quattro anni costato oltre tre milioni di vittime per combattimenti, malattie, fame. Ma cade nel vuoto il suo appello a coloro che “soprattutto nell’Est, in Kivu, non hanno ancora capito che la guerra è finita”. Nelle province del Nord e Sud Kivu -dove il presidente ha ottenuto un consenso massiccio e unanime- il conflitto prosegue. In questi mesi, miliziani del generale dissidente Laurent Nkunda, appoggiato dal Rwanda, ed ex-ribelli ruandesi fuggiti dal loro Paese dopo il genocidio del 1994 continuano a perpetrare impunemente abusi e violenze contro i civili in Congo.
Di altrettante violazioni dei diritti umani si macchiano anche i soldati dell’esercito governativo. A poco serve l’intervento della missione Onu (Monuc), che con oltre 17.500 peacekeeper è il contingente di pace più esteso e costoso del mondo. Il prezzo, quello vero, lo pagano ancora i civili congolesi. Migliaia di vittime anche nel 2007 e 144 mila nuovi sfollati dall’inizio dell’anno, con un totale di 650 mila nel Kivu: secondo l’Acnur, il numero più alto di profughi interni nella regione a causa del conflitto. Dopo una serie di accordi disattesi, a metà novembre Congo e Rwanda firmano una nuova intesa per il disarmo di ribelli nell’Est dell’ex-Zaire. Non è un caso: questa zona custodisce una parte consistente della “cassaforte geologica” dell’immenso tesoro congolese (coltan, rame, oro, cassiterite, diamanti). Adesso -col pericolo che sia una maledizione anziché una risorsa aggiuntiva- pure petrolio e gas dal lago Albert al confine con l’Uganda.
Scene di guerra anche nella capitale Kinshasa: a marzo -per due giorni, con un bilancio di almeno 300 morti- avvengono scontri tra forze locali e milizie del candidato sconfitto alle presidenziali Jean-Pierre Bemba, ex-vicepresidente ma anche leader di uno dei principali movimenti ribelli del passato. La sicurezza è affrontata anche nel colloquio tra Kabila e George Bush a Washington, a fine ottobre: la Casa Bianca rinnova sanzioni economiche contro il dissidente Nkunda e altri capi ribelli dell’Est. Genuino interesse umanitario degli Usa? Non proprio: il presidente congolese incontra anche rappresentanti di società americane dell’industria estrattiva attratte dai giacimenti dell’ex-Zaire.
Si registrano comunque piccoli passi avanti: due ex-capi ribelli sono sotto processo al Tribunale penale internazionale all’Aja per i massacri contro i civili. Nella regione dell’Ituri il disarmo dei gruppi armati è quasi completo. E poi l’incessante e coraggioso impegno della società civile: qualche mese fa, nel primo forum di ong congolesi e sindacati, è stata rilanciata la richiesta di un “nuovo Congo” costruito su una “una gestione sana e una redistribuzione equa delle risorse naturali del Paese”. Dove il 66,4% dei decessi è causato da malaria: su 120 milioni di casi all’anno in forma acuta si registrano oltre 500 mila decessi.
L’eredità di un debito illegittimo
Nel 2003 il governo Italiano ha cancellato quasi 400 milioni di debito bilaterale tra l’Italia e la Repubblica Democratica del Congo (rdc), originato principalmente dai finanziamenti pubblici garantiti a imprese e banche italiane, quali Astaldi, Ansaldo Energia, Citaco-Sicai, Sicai, Italsider, Sanpaolo-Imi e diverse altre, coinvolte nella costruzione delle due dighe di Inga I e II (vedi box in alto). Operazioni coperte dalla massima segretezza dell’agenzia di credito all’esportazione italiana, la Sace, interamente controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, su cui non ci è dato sapere nulla. La costruzione delle prime due dighe è già costata al governo della Rdc circa 5 miliardi di dollari, pari a un terzo del debito estero del Paese verso creditori bilaterali e multilaterali. Un debito che la popolazione congolese continua oggi a pagare, a discapito di investimenti sociali necessari per risollevare le sorti di questa gente, martoriata da anni di guerra civile e per la maggior parte costretta a vivere in condizioni ben al di sotto della soglia di povertà. Crediti irresponsabili per operazioni fallimentari di cooperazione, che non hanno portato alcun beneficio alla popolazione congolese, ma che per buona parte hanno contribuito all’arricchimento personale del dittatore Mobutu, che si dice abbia “rubato” al Paese oltre 5 miliardi di dollari, pari al prodotto interno lordo della Rdc, finiti sui suoi conti personali a Londra e in Svizzera. Un debito illegittimo, che la popolazione congolese sta ancora ingiustamente pagando anche al governo italiano, sesto creditore bilaterale del Paese.
Lo scorso settembre l’Italia ha firmato un accordo bilaterale sugli investimenti con la Rdc, in discussione al Parlamento per la ratifica. Un accordo reciproco, che chiede libero accesso al mercato congolese per le aziende italiane e offre in cambio lo stesso, nel caso -improbabile- di qualche investitore congolese interessato alla nostra produzione di scarpe, sedie o automobili.
Le imprese italiane, lo sappiamo dalle discussioni al Parlamento, sono interessate principalmente al taglio del legname e alle infrastrutture.
L’accordo riapre quindi la strada a investimenti futuri in Congo per le nostre imprese, con massime garanzie contro ogni rischio politico anche per operazioni realizzate prima dell’entrata in vigore dell’accordo stesso. Nessuno si chiede quali operazioni vadano a coprire queste garanzie, o quale sia l’impatto di sviluppo delle attività delle aziende italiane in Rdc.
Il commento
Un’infinita scala di grigi
Le elezioni del 2006 nella Repubblica Democratica del Congo hanno rappresentato un primo passo sulla strada della pace “positiva”: quella costruita sulla giustizia e la democrazia. Durante i lunghi anni delle guerre, le organizzazioni di società civile hanno lavorato in maniera straordinaria, denunciando colpevoli e complici, disobbedendo a governi considerati illegittimi, esigendo che le violenze finissero, supplendo alla scomparsa delle istituzioni. Con il processo elettorale divenuto realtà, queste stesse organizzazioni hanno fatto il miracolo: educazione civica ed elettorale, informazione agli elettori. Un cammino verso la pratica di base della democrazia che ha smentito tutti coloro (ed erano tanti) che ritenevano impossibili elezioni libere e trasparenti in Congo. Ora, però, il compito è diverso. Nel Nord Kivu i risultati elettorali hanno aumentato i consensi al generale Laurent Nkunda. Nel frattempo, a Kinshasa, non ci sono segnali di “conversione” tra i personaggi che ricoprono ruoli di responsabilità politica e amministrativa: continua, come in passato, l’accaparramento di sfere di influenza. L’occupazione delle poltrone oggi serve per avere controllo su qualche risorsa da gestire poi in modo clientelare. Il presidente, il Parlamento, i consigli provinciali che sono stati eletti stanno deludendo le aspettative. La troppa fiducia dell’anno scorso ha lasciato molte e molti amareggiati. Rimane, in un certo senso, l’abitudine nella società civile a rifiutare -e lottare contro- tutto ciò che non rispecchia ciò che si vorrebbe.
Anche nell’Est, dov’era visto come il grande eroe che avrebbe portato pace, prosperità e democrazia, Kabila oggi è considerato colpevole di tutto ciò che non funziona; della situazione economica che peggiora, delle decine di morti negli scontri armati, dei 160 mila sfollati dall’inizio dell’anno. Invece, mi viene da dire, con istituzioni legittimamente elette, è necessario organizzarsi in modo diverso: serve denunciare, è doveroso criticare, ma anche consigliare, proporre, impegnarsi per correggere. Un esempio positivo è dato da un gruppo di attivisti di Kinshasa che hanno scelto di impegnarsi a pungolare
le istituzioni sulla revisione delle concessioni di taglio nelle foreste e sui contratti per lo sfruttamento delle risorse minerarie. Un altro esempio è stata la riunione di alcune decine di donne di Rwanda, Burundi e Rdc,
a Goma, per parlare non solo di sicurezza ma anche di pratiche di riconciliazione. Servono meno gli innumerevoli documenti che preannunciano da mesi un’imminente guerra, che denunciano (da fonti sempre anonime) le mire aggressive degli Stati confinanti, o il tradimento interno di gruppi ruandofoni: le minacce alla democrazia in Rdc non provengono solo dall’esterno.
La costruzione delle istituzioni democratiche non si fa dall’oggi al domani. E la semplificazione dell’identificare il cattivo di turno non aiuta nella faticosa ricerca di una pace positiva. Certo, tutto è più difficile e faticoso quando niente è più o bianco o nero. Oggi, con un’infinita scala di grigi, il lavoro richiede approfondimento, mediazione, nuove pratiche, tempi lunghi.
* Beati i costruttori di pace