Economia / Opinioni
La sinistra e la lotta alla precarietà, che cosa insegna il caso spagnolo
Il governo Sánchez ha ridotto la disoccupazione e aumentato i redditi grazie al salario minimo. Un esempio per l’Italia. La rubrica a cura dell’Osservatorio internazionale per la coesione e l’inclusione sociale (OCIS)
Per oltre trent’anni, politiche di impianto neoliberista hanno radicalmente trasformato il mercato del lavoro in numerosi Paesi europei tramite misure di flessibilizzazione, deregolamentazione e deflazione che hanno ridotto la sicurezza dell’impiego e aumentato la precarietà dei lavoratori. In Italia le riforme che hanno flessibilizzato il mercato del lavoro e contenuto l’incremento delle retribuzioni sono state quasi tutte promosse da governi di centro-sinistra, o comunque guidati dal Partito democratico (2012 e 2015, prima Pds nel 1997): un paradosso che la scienza politica cattura con l’espressione Nixon goes to China.
Anche oggi, stretto fino allo scorso luglio nell’abbraccio letale dei partiti della destra a sostegno del Governo Draghi, il centro-sinistra italiano arranca, incapace di formulare e perseguire una proposta e una visione realmente alternativa: sono state nominate diverse commissioni di studio -su riforma degli ammortizzatori sociali, lavoro povero, reddito di cittadinanza- ma le raccomandazioni degli esperti sono rimaste al momento inascoltate.
Fortunatamente per i destini della sinistra in Europa, la sindrome italiana non pare contagiosa, nemmeno nei Paesi del Sud. Il caso più emblematico è la Spagna, dove dal 2019 il Partito socialista governa in coalizione con l’alleanza Podemos-Izquierda Unida. Negli ultimi tre anni l’esecutivo spagnolo ha infatti ridato centralità alla negoziazione tripartita, firmando 13 accordi con sindacati e imprenditori su questioni importanti come salario minimo e riforma del mercato del lavoro. Circa le retribuzioni minime, gli accordi promossi dalla ministra Yolanda Díaz Pérez hanno dato nuovo slancio alle politiche timidamente avviate dai governi precedenti: dopo lo storico aumento del 22% del salario minimo nazionale nel 2019, lo stesso è stato fissato a 950 euro lordi al mese (per 14 mensilità) nel 2020, a 969 euro nel 2021 e a 1.000 euro nel 2022.
L’obiettivo è raggiungere il 60% del salario medio alla fine del 2023. Piú di due milioni di persone hanno beneficiato di questi aumenti e si è registrato un consistente incremento dei redditi fra i lavoratori dei decili salariali più bassi: la percentuale delle famiglie con redditi inferiori a 1.000 euro mese infatti è passata dal 19,7% nel 2018 al 14,8% nel 2021, mentre il divario di genere si è ridotto di quasi tre punti percentuali. Altrettanto importante, non si sono registrati effetti negativi sul mercato di lavoro, che anzi sembra entrato in un momento d’oro: la disoccupazione ha raggiunto il livello più basso dal 2008 riducendosi di più di 1,1 milioni di unità negli ultimi 16 mesi e scendendo sotto i tre milioni per la prima volta dal 2008. Il tasso di disoccupazione è passato dal 16,3% di dicembre 2020 al 13,1% di maggio 2022.
In questo quadro, a gennaio 2022 il governo ha varato un’importante riforma del mercato del lavoro che mira a trasformare un modello fortemente segnato dalla precarietà tramite: penalizzazioni economiche per i contratti di breve durata, eliminazione delle forme di impiego che consentivano di mascherare da lavoro autonomo forme di lavoro dipendente, introduzione di stringenti causali per attivare contratti a tempo determinato nonché forti penalità in caso di infrazione, definizione di nuove regole volte a impedire forme di dumping salariale nei casi di subappalto ed esternalizzazione dei servizi, rilancio della contrattazione collettiva a livello settoriale, anche ripristinando il periodo di validità degli accordi collettivi dopo la scadenza degli stessi. I primi risultati della riforma sono spettacolari: in soli sei mesi il numero dei nuovi contratti a tempo indeterminato è quadruplicato, passando dal 10% al 50% del totale.
Matteo Jessoula insegna Comparative welfare states all’Università degli Studi di Milano ed è co-coordinatore di OCIS. Pablo Bustinduy, è assegnista di ricerca sul progetto “Euroship” presso l’Università degli Studi di Milano.
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