Esteri / Varie
La rotta dei vestiti usati
In Tanzania e in Mozambico, tra gli ambulanti che vendono una parte degli indumenti conferiti nei contenitori stradali in Italia. Di fronte al rischio infiltrazioni criminali, già documentate dalla Direzione nazionale antimafia, la risposta possibile è il controllo integrale della filiera
Dal centro del grande mitumba arriva una musica vivace. Quattro sedicenni cantano, battono le mani e ballano sul bordo di un grande banco di legno carico di vestiti usati. In Tanzania la parola “mitumba” è usata per indicare i mercati dove si vendono vestiti usati. Karume è uno dei più grandi mitumba di Dar es Salaam, la città più grande del Paese. I banchi sono avvolti da una sfocata e diffusa luce arancione: uno strano effetto provocato dalla luce solare che filtra dall’altissimo tetto di legno e si riflette sui mucchi di vestiti. Mentre mi faccio spazio nel fiume di persone che circonda i banchi, chiedo ad Alodia cosa dice la canzone intonata dai 4. Lei ride: “Non c’è nessun testo. Dicono solo i prezzi dei vestiti: pantaloni a 10.000 scellini, magliette a 6.000 scellini, camice a 12.000 scellini… tutto così!”. Alodia Ishengoma è uno dei maggiori esperti africani di raccolta dei rifiuti. A Dar es Salaam stiamo cercando di capire ciò che accade con i vestiti che i cittadini italiani conferiscono negli appositi contenitori stradali. Una parte di essi, infatti, finisce nei mitumba africani, e uno di questi è proprio Karume. Prima di essere venduti ai clienti finali (in Europa orientale, in Africa o in Italia), i vestiti passano per varie mani. I gestori della raccolta (spesso cooperative), li vendono a 35 o 40 centesimi al chilo e frequentemente ne perdono il controllo: considerato che il valore di un chilo di indumenti può superare i 6 euro, il non profit trattiene per sé non più del 5 o del 7% dei ricavi dell’intera filiera. Il resto è gestito da imprese iscritte all’albo gestori rifiuti, da grossisti, da esportatori, da importatori e da piccoli operatori ambulanti.
A Dar es Salaam i grossisti sono soprattutto indiani e arabi. La regola del mercato, quando vendono agli ambulanti, è una sola: gli indumenti sono pressati in balle, che vengono acquistate chiuse. Quando la qualità del contenuto non corrisponde al pattuito, il grossista non ne risponde. Non restituisce il denaro, non sostituisce la merce.
Leockrister ha trent’anni e una barba nera e riccia. Gestisce un banco di vestiti usati nel mercato di Karume. Mentre sua sorella si dedica alla vendita, lui lavora con una vecchia macchina per cucire Singer. Ripara le cose scucite trovate nelle balle, oppure aggiusta capi su richiesta dei clienti. Spiega che può “tollerare” una balla in cui il 30% del contenuto sia da riparare. “Ma quando arriva una balla peggiore -aggiunge sua sorella Ester- è un dramma: non sempre è scontato ricavare i soldi per comprarne un’altra”.
Nel mitumba di Tandale, un altro dei mercati di Dar es Salaam, gli operatori lavorano all’aperto, senza alcun riparo dalle intemperie. Tandale è un quartiere povero, dove tutte le strade sono sterrate e molti camminano a piedi nudi. Lwitiko, operatore di vent’anni che indossa la maglietta di una squadra di calcio inglese, ci spiega che quando la roba arriva sporca o ammuffita dura meno tempo in magazzino. Mostra alcune tende ormai verdi per la muffa, e della biancheria che è arrivata già marcia.
I grossisti sono decisamente meno eloquenti. Tranne Farouk, palestinese che lavora in una piccola bottega nel quartiere di Kariakoo. Giura che le balle arrivano così come le vende: lui si limita a passarle di mano. Spiega che vengono chiuse nei Paesi d’origine, e che i primi ad aprirle sono gli ambulanti. Chiunque sia il responsabile della cattiva classificazione, ad assumerne le conseguenze è l’ultimo anello della catena, il più debole. Il dettagliante non può vendere ai suoi clienti merci rotte, marce, o scarpe spaiate.
A Beira, città portuale del Mozambico, tra i grossisti dell’usato c’è anche ADPP (Ajuda de Desenvolvimento de Povo a Povo), una organizzazione non governativa locale che fa parte del circuito non profit Humana People to People.
Humana Italia, l’organizzazione italiana che fa parte del network, raccoglie indumenti usati in circa 700 Comuni italiani, e li commercializza in Europa orientale e in Africa. La sezione di ADPP a Beira riceve i vestiti al porto e poi li classifica in un grande impianto che si trova nella periferia della città, all’entrata di una bidonville. Poi li distribuisce nella sua vasta rete di negozi al dettaglio e all’ingrosso. A differenza della maggior parte degli altri soggetti che raccolgono indumenti in Italia, Humana gestisce internamente quasi tutta la filiera.
Lungo uno dei corsi principali di Beira, c’è Goto: un labirintico mercato dove oltre agli indumenti usati si possono trovare anche ricambi automobilistici, apparati elettrici di importazione cinese, pentoloni pieni di cibo, barbieri e grandi schermi che trasmettono partite di calcio. Sarebbe un luogo piacevole se non fosse per l’odore nauseabondo: i rifiuti del mercato vengono bruciati in mucchietti proprio dietro l’ultima fila di ambulanti. Anche a Goto i venditori di usato sono esasperati per l’imprevedibilità del contenuto delle balle. Pereira, uno degli operatori più attivi, ha comprato alcune cattive balle proprio da ADPP: “Dovrebbero capire che anche noi piccoli venditori dobbiamo essere aiutati -racconta-: senza il nostro lavoro la maggior parte dei loro vestiti non si venderebbe”.
Marja, la responsabile dell’impianto di classificazione di ADPP, ammette che recentemente ci sono stati alcuni problemi durante la selezione, che hanno provocato balle inadeguate e, di conseguenza, la rabbia di alcuni ambulanti. Mi guida nell’amplissimo locale dove decine di lavoratori in maglietta rossa, sotto gli occhi dei supervisori, smistano e classificano grandi mucchi di vestiti. Descrive ogni dettaglio del procedimento assicurandomi che ADPP sta cercando in tutti i modi di ridurre gli imprevisti.
In due località pochi chilometri a Nord di Beira visito dei progetti di ADPP in ambito educativo e sanitario. A Inhambane parlo con un gruppo di volontari che opera in coordinamento con i (pochissimi) medici e infermieri del sistema sanitario nazionale. I volontari visitano regolarmente le comunità rurali, verificano l’eventuale presenza dei sintomi di AIDS e tubercolosi, fanno fare le analisi e distribuiscono medicine gratuite. A Nhamatanda, un grande insediamento rurale immerso nella foresta, Ajuda de Desenvolvimento de Povo a Povo gestisce un grande complesso scolastico dove 500 studenti si preparano a una professione tecnica o a diventare “istruttori comunitari”. Mangiano e dormono nell’istituto, pagando una retta contenuta: la loro formazione è sostenuta dalla vendita degli indumenti usati, da donazioni, e dal lavoro degli studenti stessi, che coltivano ortaggi, allevano animali e producono mattoni. Sonia e Claudia, le direttrici dell’istituto, mi accompagnano per le aule, per i dormitori e per le aree di lavoro. Tutto è ordinato.
A Roma, di ritorno dal Mozambico, incontro Karina Bolin, la presidente di Humana Italia. Le parlo del mercato di Goto e del problema delle balle dal contenuto inadeguato. Una possibile soluzione, dice, potrebbe essere “la creazione di una sorta di assicurazione popolare, che protegga i piccoli operatori dal rischio di acquistare cattive balle”.
C’è un altro problema, però, che chi si occupa di raccolta degli indumenti usati in Italia non affronta: secondo l’International Textile Garments and Leather Workers’s Federation, lo sviluppo dei Paesi è inibito quando l’offerta tessile locale non riesce a competere con quella di indumenti usati. Nel 2007, in particolare, la fine degli accordi AGOA (“Atto di crescita e opportunità per l’Africa”, per la sua sigla in inglese) tra Stati Uniti d’America e alcuni Paesi dell’Africa occidentale ha mostrato che i settori tessili locali sono troppo fragili quando dipendono solo dalla domanda estera. L’istituzione di un canale privilegiato di esportazione verso gli Usa, infatti, aveva determinato il fiorire di attività tessili, collassate immediatamente quando gli accordi furono improvvisamente revocati dagli americani. Se la domanda interna fosse stata più forte, e non avesse dovuto confrontarsi con la concorrenza degli indumenti usati, probabilmente il settore avrebbe retto con più facilità. Oggi sono circa quaranta i Paesi che proibiscono l’importazione di indumenti usati, e molti altri innalzano barriere tariffarie per disincentivarla. Ma quando l’offerta di tessile locale non esiste, molte persone non potrebbero vestirsi a prezzi accessibili se non esistesse l’usato.
“In realtà -fa notare Karina- anche l’usato porta sviluppo, ed è in grado di creare reddito ed economia reale. Ci sono zone sperdute dove, attorno a una nostra rivendita all’ingrosso, sono nati prima posti ambulanti di vestiti usati e poi interi mercati. Alle attività del network di Humana corrisponde molto indotto, che potrebbe essere organizzato, riconvertito, in qualche caso internalizzato, al fine di rendere l’usato un motore per la produzione locale del nuovo. Oltre ai canali di distribuzione informali ci sono le sartorie che riadattano gli abiti e le manifatture che recuperano la fibra”. —
Usato insicuro
In Italia la raccolta di indumenti usati nei contenitori stradali ha raggiunto, nel 2013, le 111.000 tonnellate, una media di 1,8 chili per abitante. A curare la raccolta sono centinaia di soggetti gestori che gestiscono il servizio in affidamento dai Comuni o da altre stazioni appaltanti. Dopo la fase di raccolta gli indumenti sono consegnati a intermediari, che compiono l’igienizzazione e selezione, e poi a grossisti che possono essere italiani (per la cosiddetta “crema” e gli abiti di prima qualità) o esteri (soprattutto seconde e terze scelte) oppure ad imprese che si occupano di recuperare fibre e pezze.
Il 68% del raccolto è destinato a riutilizzo, il 23% a recupero e il 7% a smaltimento. È una filiera controversa, che spesso presenta gravi problemi: la Direzione nazionale antimafia, nella relazione di gennaio 2014, ha scritto infatti che “buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti”. —