Terra e cibo / Opinioni
La ricerca agricola non capisce il valore della diversità
I processi di innovazione producono ibridi, ignorando gli agricoltori che coltivano le varietà locali e creando confusione nel mercato. La rubrica di Riccardo Bocci
La società occidentale ha la presunzione di pensare che la scienza sia neutrale, un campo di azione scevro da implicazioni sociali, relazioni di potere o costrutti ideologici che ne influenzano le attività. In realtà, nella sua azione è soggetta al mondo esterno che la circonda e, a sua volta, lo influenza. Insomma, un gioco continuo di rimandi e relazioni, che fa sì che il fare scienza non sia scollegato dalla società, ma al contrario sia una parte centrale di una determinata visione del mondo.
In agricoltura tutto ciò è ancora più vero, perché sono presenti gli agricoltori: soggetti intermedi tra scienza e oggetto del suo studio. Come considerare questi attori? Come valutare il loro sistema di conoscenze acquisite nel tempo e legate allo specifico luogo in cui vivono?
L’antropologia ha risposto a queste domande per quanto riguarda i saperi tradizionali detenuti dalle comunità rurali o indigene nei Paesi del Sud del mondo, includendoli nei percorsi di indagine, cominciando a parlare di ricerca partecipata e decentralizzata, di conoscenze tacite non scritte da integrare nei saperi scientifici, nel tentativo di stabilire una nuova metodologia di analisi delle realtà che non prescindesse da chi la vive tutti i giorni.
È stato meno facile fare un percorso analogo nei cosiddetti Paesi sviluppati. Dove il sistema di conoscenze in agricoltura è troppo strutturato e legato al mondo economico e ai suoi portatori di interesse, per cui la questione impatta su sistemi di potere, valori e visioni di mondo in contrasto tra di loro. Una difficoltà che emerge chiaramente se si analizza come la ricerca agricola affronta il tema delle varietà locali. Negli anni i vari progetti che mirano alla loro “valorizzazione” (termine quanto mai ambiguo) hanno avuto come obiettivo la produzione di ibridi. La ricerca quindi è partita da popolazioni o varietà a impollinazione aperta per arrivare a produrre “F1” (ibridi) considerati più produttivi e performanti.
Come al solito si è immaginato un solo percorso per il progresso varietale, senza considerare le conseguenze per gli agricoltori che le coltivano e senza coinvolgerli nel presunto processo di miglioramento genetico. Che vede tra i suoi effetti collaterali l’impossibilità per i coltivatori di rifarsi il seme in azienda, dal momento che le progenie degli ibridi sono difformi e non riproducono le qualità dei genitori.
Il 2023 è l’anno di iscrizione dell’ibrido “Pignoletto Peila” nel catalogo delle varietà vegetali
C’è poi un’altra operazione che purtroppo è stata spesso accompagnata a questa valorizzazione: il mantenimento della vecchia denominazione, con la semplice aggiunta di un suffisso per differenziarla. In questo modo la confusione regna sovrana sia per chi compra le sementi, sia per il consumatore.
Si tratta di una nuova forma di bio-pirateria culturale, che dimostra la presa che hanno ancora sul nostro immaginario i nomi delle cosiddette vecchie varietà e, alla fine, anche il loro interesse economico.
L’ultimo episodio è avvenuto in Piemonte, dove la ricerca pubblica ha prodotto un nuovo ibrido a partire dal mais Pignoletto rosso del Canavese. Che però non ha un nome “di fantasia” slegato da quello originale, al contrario è stato chiamato “Pignoletto Peila”. Se l’operazione dal punto di vista legale è legittima (la complessa normativa europea sulle denominazioni varietali lascia infatti parecchie porte aperte) appare molto più dubbia sul piano etico e sociale.
Come tutelare quegli agricoltori che hanno mantenuto nel tempo questa varietà e che ora si trovano la concorrenza di un prodotto presentato come simile al consumatore, ma con una produttività molto maggiore?
C’è una sola strada per evitare di commettere ancora questi errori: coinvolgere gli agricoltori nei processi di ricerca e tenere conto del loro portato di conoscenze e simbolico.
Riccardo Bocci è agronomo. Dal 2014 è direttore tecnico della Rete Semi Rurali, rete di associazioni attive nella gestione dinamica della biodiversità agricola
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