Esteri / Reportage
La nube tossica che inghiotte l’Iraq
Reportage tra i miliziani di Daesh che bruciano i pozzi di petrolio ipotecando il futuro del Paese
Una colonna di fumo scuro e denso si eleva dalla terra verso il cielo. All’orizzonte, il paesaggio è buio e offuscato. A prima vista, sembra un combattimento ancora in corso, ma l’esercito iracheno ha cacciato a fine agosto da Qayyarah i miliziani di Daesh (il sedicente “Stato islamico”) che l’avevano controllata per due anni. La cittadina di quindicimila abitanti si trova però, in una posizione strategica sul fronte meridionale difeso dalla nona divisione dell’esercito iracheno, a circa trenta chilometri a Sud di Mosul. Qui, infatti, è presente una base aerea, la Qayyara Airfield West, un importante hub per l’aviazione americana che conduce i bombardamenti sulle postazioni di Daesh e supporta le truppe irachene.
Dal 17 ottobre, in Iraq è iniziata ufficialmente l’offensiva militare per la liberazione della roccaforte dell’autoproclamato Stato islamico che coinvolge almeno 30mila uomini. Sotto la guida della coalizione internazionale, l’attacco sta procedendo su diversi fronti grazie all’appoggio della polizia federale irachena, delle forze armate curde Peshmerga, dei combattenti delle tribù sunnite e delle forze di mobilitazione popolari -milizie sciite- a cui è formalmente vietato l’ingresso a Mosul.
Oltre ad essere una strategica posizione militare, il distretto di Qayyarah è un terreno ricco di risorse naturali, come lo zolfo e il petrolio. I due principali giacimenti nella regione, Qayyarah e Najma, producevano trentamila barili di greggio al giorno prima di essere conquistate dal gruppo jihadista.
Il 22 ottobre i combattenti hanno dato fuoco alla fabbrica chimica per il trattamento dello zolfo estratto ad Al-Mishraq e al deposito di prodotti derivati. Il fumo e i vapori tossici hanno raggiunto i centri abitati
Ciò che s’incontra lungo il cammino che conduce a Qayyarah è un paesaggio spettrale, quasi apocalittico. Il sole ancora caldo d’inizio novembre è inghiottito dalle nuvole plumbee e sporche, spostate dal vento. L’aria è acre e le esalazioni diventano urticanti non appena il pulmino dell’esercito iracheno, che accompagna i giornalisti, si avvicina alla zona annerita dove la notte sembra essere già calata. I pochi edifici ancora integri sono affumicati, quelli crollati pure. All’interno stoviglie, stracci, giocattoli in frantumi e indumenti abbandonati sono color corvino. Su qualche muro, resistono, ben visibili, le scritte che inneggiano allo Stato islamico. Su altri si ringrazia l’esercito iracheno per la liberazione. I cartelli stradali, invece, sono ricoperti di un manto di cenere e le pecore, che pascolano nei campi secchi e aridi, non molto distanti, hanno la lana tinta di nero. Non sono le conseguenze dei bombardamenti della coalizione internazionale. Non sono neanche i fumi scaturiti dai combattimenti degli eserciti con l’artiglieria pesante. Sono pozzi di petrolio che bruciano, senza tregua, giorno e notte, inquinando il suolo, l’aria e l’acqua di questa terra alla riva destra del fiume Tigri. Un’arma non convenzionale che ha rallentato, nel breve termine, l’offensiva per la riconquista del capoluogo di Niniveh ma ha causato, nel lungo, danni permanenti all’ambiente e alla salute.
I miliziani di Daesh hanno incendiato i pozzi prima di ritirarsi sulle linee difensive, verso Mosul, per ostacolare l’avanzata delle forze armate in terra, bloccare la visuale ai bombardamenti e lasciare un omaggio a chi non è fuggito. Le teste dei giacimenti sono state prima riempite di esplosivi e poi fatte saltare in aria, facilitando così la fuga degli stessi miliziani che hanno potuto nascondersi dagli attacchi aerei. Sono diciannove i pozzi dati alle fiamme. Secondo alcuni civili, almeno sessanta case sarebbero esplose con questa tecnica, anche se è ancora difficile calcolare quante saranno quelle inagibili, a causa del fumo o del petrolio schizzato all’interno.
All’inquinamento dei pozzi va aggiunto quello del grande impianto di zolfo. Il 22 ottobre i combattenti hanno dato fuoco alla fabbrica chimica per il trattamento dello zolfo estratto dal giacimento di Al-Mishraq e all’adiacente deposito di prodotti derivati. Il fumo e i vapori tossici hanno raggiunto numerosi centri abitati, tra cui Qayyarah, contaminando l’aria di tossine e le principali fonti di acqua potabile. L’inquinamento da diossido di zolfo, che causa gravi problemi respiratori e irrita gli occhi e la gola, ha ucciso due persone e determinato il ricovero di altre mille negli ospedali circostanti, secondo quanto dichiarato dal direttore della struttura di Qayyarah, Abdul Salam Jabbour, all’agenzia di stampa Reuters poche ore dopo.
A differenza degli altri villaggi fantasma recentemente liberati, infatti, questa località è abitata. I civili sono tornati dai campi per rifugiati e dagli insediamenti informali. Altri non se ne sono mai andati e hanno vissuto per due anni sotto le regole del califfato. Diverse attività commerciali sono state riaperte: i negozietti di telefonia mobile, i barbieri e il mercato della frutta. Un anziano signore la vende su un carretto di legno lungo il ciglio della strada non asfaltata. Accanto a lui, un gruppo di bambini gioca a piedi scalzi. Un odore acre di zolfo e petrolio permea la città e la fuliggine ha macchiato tutto di nero. Sono pochi quelli che indossano le mascherine per proteggersi. La maggior parte della popolazione è stata lasciata soffocare dai fumi propagati dal vento che può lasciare il cielo sereno e un attimo dopo cancellare il sole. E con le persone, anche gli animali, unica fonte di sostentamento per molti pastori e allevatori della zona.
“Stiamo facendo tutto il possibile. Abbiamo spento l’incendio alla fabbrica di zolfo e un’altra squadra di ingegneri sta lavorando senza sosta in sinergia con i vigili del fuoco da due settimane, ma per spegnere questi fuochi ci vorranno ancora mesi”, dichiara Haitham Al-Mayahi, portavoce del governo iracheno ad Altreconomia. “Non abbiamo ricevuto nessun sostegno dalla comunità internazionale per far fronte a questo problema ambientale. Stiamo facendo il nostro meglio con le forze che abbiamo a disposizione”, lamenta. E riguardo la protezione della salute dei civili Al-Mayahi spiega: “Le persone vicino ai pozzi sono state evacuate: alcune vivono nelle case abbandonate da altri profughi al centro di Qayyarah, altri nei campi per sfollati interni”.
“Ci hanno abbandonato. Ho portato la mia famiglia a Qayyarah, il più lontano possibile da questi fumi ma siamo tutti ammalati, facciamo fatica a respirare” – Hussein
Vicino a un pozzo petrolifero, alla periferia di Qayyarah, le fiamme sono ancora alte. La terra sembra vulcanica tanto è carbonizzata. Dal suolo si sprigionano enormi nuvole ardenti e ferrigne che oscurano completamente la vista. Gli occhi bruciano e lacrimano, sia per il calore, sia per le sostanze emesse dalla combustione. La gola è secca; a nulla serve inumidire la mascherina distribuita dall’esercito. “Pensa che noi respiriamo tutti i giorni questi fumi e abbiamo solo questa mascherina”, ammette uno dei soldati più giovani, Ahmed. A qualche decina di metri dal pozzo incandescente ci sono delle case annerite e crivellate. Uno degli ufficiali dell’esercito iracheno mostra la zona e si assicura che i fotografi non si avvicinino troppo alle fiamme: “Fate attenzione e non allontanatevi dalla zona tracciata, potrebbero esserci ancora degli ordigni inesplosi”. I combattenti di Daesh hanno disseminato congegni esplosivi improvvisati in ogni angolo. L’ufficiale non ha ancora finito di parlare quando s’intravedono sei, sette bambini giocare all’ingresso dell’edificio più vicino al pozzo. Il terreno intorno alla casa è un cimitero di munizioni. Una scatola di cartone, appoggiata su uno scalino, è colma di proiettili che i bambini continuano a riempire, recuperandoli nel giardino a mani nude. Hanno i piedi, le braccia e i visi luridi; sono talmente neri che sembrano affumicati. Sorridono e guardano incuriositi. Dopo pochi minuti, due donne con indosso l’abaya, l’abito tradizionale, si affacciano alla porta. Non vogliono essere riprese in volto, né fotografate, ma sono disposte a rispondere a qualche domanda. “Tfaddal”, in arabo “prego, entrate pure”. La casa è un palazzo di due piani con soffitti alti e una scala in marmo al centro del salone. Per tutti i due anni in cui hanno vissuto sotto il sedicente Stato islamico, non l’hanno mai lasciata. Sono andate via solo dopo gli intensi combattimenti tra l’esercito iracheno e i miliziani.
“Siamo venute qui un paio di ore, giusto il tempo di pulire e togliere un po’ di polvere”, spiega una terza donna, più anziana che dice di chiamarsi Salima. “Ci siamo spostate al centro di Qayyarah in un’altra casa ma qualche volta veniamo a pulire e controllare che nessuno entri”. Non sembrano preoccupate per i vapori e le esalazioni respirate dai bambini. “Che cosa cambia qui o a Qayyarah, tanto c’è sempre fumo, notte e giorno”, afferma.
I bambini rientrati in casa non smettono di tossire. Non ci sono gli uomini. “Sono al lavoro”, dice la donna. Un’altra risponde: “Sta combattendo con le milizie sunnite”. Un colonello, che preferisce mantenere l’anonimato, spiegherà più avanti: “Dicono che i mariti sono al lavoro ma è molto probabile che siano con Daesh. Non possono dirci la verità perché rischiano di essere ammazzate dai mariti o di vedersi arrestare tutti gli uomini della famiglia. In ogni modo, noi abbiamo delle liste in cui controlliamo chi era con Daesh e chi no”.
A pochi chilometri dai pozzi in fiamme, lungo la strada principale che conduce al centro di Qayyara, centinaia di persone aspettano il via libera per passare. C’è chi arriva da Erbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno, dove si è rifugiato due anni fa e ora sta provando a ritornare nei propri villaggi d’origine. C’è chi scappa dalle zone appena liberate o dove sono ancora in corso i combattimenti. Le donne attendono sedute in mezzo ai campi, con i bambini esausti e affaticati. Alle loro spalle, le nuvole e i fumi dei pozzi hanno completamente oscurato il cielo e annerito i loro volti. Un uomo anziano è seduto all’interno di un pick-up: tra le mani ha un fazzoletto bianco in segno di pace. Tutti gli uomini e i ragazzini sopra i tredici anni, invece, sono presi dall’esercito iracheno e portati negli appositi screening dove vengono verificati i nomi nelle liste per escludere ogni coinvolgimento con gli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi, il leader di Daesh. Benché il distretto di Qayyarah sia abitato da una popolazione a maggioranza sunnita, ad ogni checkpoint si nota una massiccia presenza di milizie e gruppi armati sciiti, con le proprie bandiere, immagini religiose e slogan. Anche sui veicoli dell’esercito iracheno sventolano i drappi con i colori e i volti di Alì e dei suoi discendenti. Simboli potenti e al tempo stesso pericolosi che dimostrano l’acuirsi della divisione settaria, all’interno di quello che dovrebbe essere l’esercito nazionale. Lo stesso esercito, che due anni fa ha abbandonato la popolazione di Mosul e dei villaggi limitrofi, scappando e permettendo l’entrata degli uomini del califfato. Anche per questo la popolazione locale non si fida.
Prima di lasciare lo stabile abitato dalle donne, arrivano due uomini, padre e figlio. Con un gesto, mostrano la loro casa, non molto distante da quella delle donne. “Ci hanno abbandonato, nessuno ci aiuta”, lamenta Hussein. “Ho portato la mia famiglia a Qayyarah, il più lontano possibile da questi fumi ma siamo tutti ammalati, facciamo fatica a respirare”. La guerra in Iraq è anche questo: non solo bombe, proiettili e mortai ma anche i devastanti effetti sulla salute delle persone e sull’ambiente che sono destinati a durare nel tempo.
“Le nuvole causate dalla combustione dei pozzi petroliferi e degli impianti industriali contengono una numero elevato di sostanze diverse, ognuna delle quali ha diversi effetti sulla salute -spiega ad Ae Emilia Wahlstrom, dell’unità congiunta ambientale gestita dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) e dall’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari-. Studi sui precedenti disastri ambientali in Iraq ci dicono che dobbiamo aspettarci ripercussioni sull’ambiente e sull’uomo nel lungo periodo. Certe sostanze si depositeranno nel terreno, altre nell’acqua e nell’aria. Altri inquinanti, come i metalli pesanti, possono persistere per decenni, compromettendo l’agricoltura e danneggiando la vita acquatica. Per quanto riguarda le conseguenze sulla salute, nel breve periodo, l’esposizione ad alti livelli può causare nausea, vomito, danni alle vie respiratorie, ai polmoni e agli occhi. Nel lungo periodo gli effetti possono includere danni permanenti ai polmoni e alle vie respiratorie”.
Anche sul fronte di Bashiqa, cittadina a 15 chilometri a Est di Mosul, i combattenti hanno dato fuoco a un canale riempito di petrolio che circonda la roccaforte di Daesh per ostacolare l’esercito curdo e l’aviazione.
L’impiego delle risorse naturali come strumento di guerra non è una novità in Iraq. Dopo l’invasione irachena del Kuwait del 1991 -che causò l’intervento americano in quella che si ricorda come la Prima guerra del Golfo- le forze di Saddam Hussein hanno incendiato e sabotato più di settecento pozzi di petrolio in Kuwait durante la ritirata, provocando la fuoriuscita di 60 milioni di barili di petrolio e rilasciando nell’atmosfera mezzo milione di tonnellate di anidride carbonica. Più di dieci milioni di metri cubi di terreno e una grande falda acquifera, che rappresentava i due quinti delle riserve di acqua dolce del Kuwait, sono stati irrimediabilmente contaminati. Dieci milioni di barili di greggio hanno raggiunto le acque del Golfo, inquinando più di 150 chilometri di costa.
Seppur in misura ridotta, anche in seguito all’invasione americana del 2003, le forze irachene hanno dato fuoco a una decina di pozzi petroliferi nella zona di Rumaila, causando l’emissione nell’aria di fumi e nubi tossiche altamente inquinanti con conseguenze permanenti sia per l’ambiente che per la salute umana. All’inquinamento dei pozzi di petrolio vanno sommate le sostanze chimiche e tossiche rilasciate dalle armi, dai proiettili all’uranio impoverito e dalle fabbriche negli ultimi decenni. È interessante notare che lo stesso impianto di zolfo di Al-Mishraq, incendiato dai miliziani di Daesh lo scorso ottobre, è andato a fuoco anche nel giugno 2003, per quasi tre settimane. In un rapporto dell’UNEP si legge che “non si è ancora certi se si tratta di un sabotaggio o di un incidente nella fase di produzione”.
9,96 è l’indice dell’impatto del terrorismo in Iraq nel 2016 elaborato dall’Institute for Economics and Peace. Il massimo è 10. È il primo Paese al mondo, seguito da Afghanistan e Nigeria
La nube bianca di gas e di zolfo ha causato l’emissione di quasi un milione di tonnellate di anidride solforosa e di idrogeno solforato in un’area estesa tra Al-Sharqat, Mosul e Erbil. Entrambi sono gas incolore, fortemente irritanti per gli occhi, per l’apparato respiratorio, la pelle e gli organi del corpo umano. L’idrogeno solforato, ad alte concentrazioni, è classificato come veleno e può causare disturbi neurologici, respiratori, motori, cardiaci e aborti spontanei.
Il Pentagono, dopo un’inchiesta del New York Times del 2014, ha confermato che nel 2003 più di seicento cittadini americani sono stati a contatto con agenti chimici in Iraq. Le persone esposte ai proiettili all’uranio impoverito, tuttavia, non sono solo soldati americani ma anche militari iracheni, stranieri e soprattutto civili. Nonostante le difficoltà a recuperare i dati (la maggior parte degli ospedali sono privati e non hanno statistiche di tutto il territorio nazionale), è emersa la correlazione tra uso di armi all’uranio impoverito, tumori, malformazioni dei feti e la crescita esponenziale di leucemie, linfomi, tumori ai polmoni e al fegato. Nello studio epidemiologico “Cancer, Infrant Mortality and Birth Sex-Ratio in Fallujah, Iraq 2005-2009” si è parlato del “più alto danno genetico in una popolazione mai studiato”. Secondo un’altra ricerca (“Medicine, Conflict and Survival” pubblicata dalla rivista scientifica Taylor & Francis), in Iraq ci sono 140mila casi di tumore, con 8mila nuovi episodi registrati ogni anno.
In Iraq, la guerra va avanti da trentasei anni, in maniera più o meno ininterrotta. Intere generazioni non hanno mai conosciuto la pace. Altrettante non la conosceranno, ritrovandosi a pagare, con la propria salute, i danni irrimediabili dell’inquinamento del conflitto. E questo, per la liberazione di Mosul, è solo all’inizio.
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