Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Esteri / Intervista

La guerra del Governo Netanyahu contro la stampa. Il caso di Haaretz

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu © Debbie Hill/UPI/Shutterstock / ipa-agency.net / Fotogramma

Dopo la chiusura delle sedi di Al Jazeera in Israele e in Cisgiordania il governo di Tel Aviv ha imposto sanzioni e di fatto lanciato un boicottaggio anche contro lo storico quotidiano del Paese, trattandolo come un nemico interno. Ne abbiamo parlato con Dahlia Scheindlin, analista politica della testata. Tra le sorti giudiziarie del primo ministro, il clima che si respira nel Paese e l’imminente insediamento di Donald Trump

Non si fermano gli attacchi del Governo Netanyahu contro la stampa libera e d’opposizione (ne abbiamo parlato nel podcast La guerra dei giornalisti): l’ultima battaglia -almeno finora- è stata lanciata contro Haaretz, lo storico quotidiano, nato nel 1919, contro cui il governo israeliano ha imposto sanzioni e di fatto lanciato un boicottaggio.

Il 24 novembre scorso, infatti, è stata approvata una proposta del ministro delle Comunicazioni, Shlomo Karhi, che impone a qualsiasi organismo finanziato dal governo di astenersi dal comunicare e inserire annunci sul giornale. Ne abbiamo parlato con Dahlia Scheindlin, analista politica di Haaretz.

Scheindlin, partiamo dal 7 ottobre 2023: Haaretz, chiamandosi fuori dalla narrativa dominante dei media israeliani, ha assunto subito una posizione critica verso il Governo Netanyahu. Quali sono state le reazioni dei lettori e del governo?
DS I lettori di Haaretz, in un ambiente in cui il Paese è diventato molto nazionalista, persino ultranazionalista e molto di destra, da molti anni, penso siano di due tipi. Il gruppo più grande è formato dalle persone che sono d’accordo con la nostra prospettiva, quello più piccolo da chi non la condivide, ma vuole conoscere i lavori di qualità del giornale e sapere come i politici lo leggono. Diciamo che riflette la posizione storica della sinistra in termini israeliani. Il governo ovviamente odia Haaretz da molto tempo. Non è una novità, ma fino a poco tempo fa, credo pensassero che non ne valesse la pena attaccarci, perché Haaretz non è così influente in Israele. Il primo ministro era più concentrato e preoccupato per i giornalisti investigativi della televisione mainstream. Ha sempre odiato i giornalisti investigativi televisivi, penso perchè siano più influenti. Il ministro delle Comunicazioni ha cercato di fare pressione sui media in modi diversi da quando è in carica. Ha cercato di approvare riforme per indebolire i canali televisivi tradizionali e rafforzare, per esempio, Channel 14, che è un canale fedele al governo, molto di destra; hanno vietato Al Jazeera e cercato di approvare una legge per costringere le stazioni televisive a pubblicare il loro share. Stanno cercando di fare tutte queste cose per rafforzare la loro posizione mediatica, ma nulla era mirato contro di noi, finché qualche settimana fa (a fine ottobre, ndr), il nostro editore, Amos Schocken, alla conferenza di Haaretz a Londra, ha fatto una dichiarazione sui palestinesi e su Hamas. Ha chiamato “combattenti per la libertà” i palestinesi (per poi precisare che “l’uso del terrore non è legittimo”, ndr) e così sono tutti impazziti e ha dato al governo la scusa che stava cercando. 

Che cosa può fare il governo contro un giornale israeliano? Può chiuderlo, come ha fatto con le redazioni di Al Jazeera (anche in Cisgiordania)?
DS In questo caso non si tratta di una legge e nemmeno di una risoluzione parlamentare. È una decisione del governo, il che ovviamente significa che possono decidere come attuarla e come modificarla. La libertà di stampa da noi non è un diritto costituzionale: Israele non ha una Costituzione formale, abbiamo due leggi che delineano i diritti umani fondamentali, ma non includono la libertà di espressione. E la nostra libertà di espressione è fondata, costituzionalmente, solo sulle sentenze della Corte suprema, che sono molto vecchie. Risalgono ai primi anni Cinquanta, quando il governo cercò di chiudere o vietare temporaneamente un giornale arabo e la Corte si pronunciò a favore della libertà di stampa. Fondamentalmente non è così facile decidere di chiudere un giornale ma questo governo è diventato molto creativo. Stanno avanzando una legge per privatizzare completamente la televisione pubblica, che è anche un modo per indebolirla: la tv pubblica è stata in realtà abbastanza indipendente politicamente e quindi vogliono indebolirla. Non vogliono che le persone abbiano accesso a una gamma completa di media meno orientati al profitto. Ma è solo un esempio per dire che, se vogliono, possono trovare modi creativi per legiferare. Fondamentalmente si tratterebbe di rendere più difficile la vita o il lavoro di qualsiasi media critico. 

Netanyahu è stato perdonato dagli israeliani per quello che è successo il 7 ottobre?
DS No, non è stato perdonato. Ci sono state dozzine, probabilmente centinaia, di sondaggi dal gennaio del 2023: per tutto l’anno la coalizione al governo non è risultata in grado di ottenere la maggioranza e dall’inizio della guerra ha fatto ancora peggio. Ora stanno ottenendo complessivamente forse 51 o 52 seggi, le proiezioni di quasi tutti i sondaggi, ma sono incapaci di ottenere la maggioranza, che su 120 seggi alla Knesset (il Parlamento israeliano, ndr) è di 61. Quindi, in termini di dinamiche elettorali di base, il pubblico non li ha perdonati. Netanyahu, a livello personale, ha recuperato gran parte del punteggio che aveva perso dopo il 7 ottobre ma è tornato dove era prima dello scoppio della guerra, cioè a circa il 40-45% degli israeliani che pensa che sia più adatto a essere primo ministro, rispetto agli altri candidati, ma non è ancora una maggioranza. Per il 70% degli intervistati, ogni volta che fanno ricerche su questo, dovrebbe dimettersi immediatamente o dopo la guerra. Puoi porre la questione in modo diverso ma quasi tutti lo pensano. Chiunque dice che dovrebbe dimettersi dopo la guerra ma non sappiamo quando questa finirà. Gli intervistati potrebbero immaginare che il conflitto andrà avanti per molto tempo, pensando però comunque che se ne dovrebbe andare. Per tutte queste ragioni non possiamo dire che stia facendo abbastanza bene da vincere le elezioni, se si tenessero oggi. Non è una previsione su come la gente voterà tra tre anni. Non posso prevedere che cosa accadrà ma la tendenza fino ad ora è quella che ho illustrato. 

A che punto sono i processi per corruzione in cui è imputato il primo ministro?
DS Sono in corso. Dovrebbe esserci proprio in questi giorni la fase testimoniale, dopo diversi rinvii. Ovviamente Netanyahu ci ha provato, i suoi avvocati hanno fatto appello al tribunale, per continuare a rimandare. Ma il procuratore generale ha finalmente detto di no. Questi processi sono sempre sullo sfondo e lo sono anche nella percezione pubblica di come Netanyahu stia prendendo le sue decisioni. Questa è una domanda che viene spesso posta nei sondaggi: “pensi che il primo ministro stia prendendo decisioni per il bene dello Stato e del popolo o per il proprio vantaggio e per le sue considerazioni personali?”. E ogni volta la maggioranza, di solito oltre il 60%, dice che sta prendendo le sue scelte per ragioni personali e che si deve a questo il suo desiderio di tenere insieme la sua coalizione. Perché questo lo aiuta a uscire dai suoi casi giudiziari. Penso che sia dunque la percezione pubblica il vero problema di Netanyahu. I suoi casi sono in corso, sono più lenti, ma il pubblico crede che intasino il suo processo decisionale. Anche se ritengo che sia un po’ impreciso dire che, finché è al potere, può uscire di prigione, perché non è vero: se il processo continua e i giudici arrivano a una sentenza di colpevolezza dovrà comunque affrontare la condanna, anche se è al potere. Penso che quello che guadagni, rimanendo in carica, è la possibilità di trovare modi per “fermare l’orologio”. Come se il procuratore generale fosse licenziato, cosa che non è mai successa in Israele: è il gabinetto che licenzia il procuratore generale, ma se lo fa, si aspetta una nuova elezione e che il mandato scada, e poi si nomina un nuovo procuratore generale. E forse lui o lei chiuderà i casi. Cerca di tenerla lunga, forse spera di poter trovare una via d’uscita, ma non c’è un modo chiaro e ovvio per il “ragazzo” di uscirne. 

Che cosa succederà secondo lei da gennaio 2025, quando entrerà in carica il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, a Gaza e in Cisgiordania?
DS Nessuno lo sa veramente, Trump è imperscrutabile. Non sappiamo che cosa pensi, sappiamo però chi ha scelto e credo che la figura più importante, che indichi in quale direzione vuole andare, sia l’ambasciatore in Israele, Mike Huckabee. Conosciamo le sue posizioni precedenti su questo tema, che sono completamente favorevoli alla prospettiva del governo israeliano di annettere la Cisgiordania. Sembra che l’amministrazione Trump non stia progettando di limitare tali ambizioni, il che solleva forti dubbi sul fatto che proverebbe a impedire a Israele di estendere questo approccio di annessione anche a Gaza. Penso che sia più probabile che la nuova amministrazione Trump cerchi di creare le condizioni e di convincere Israele a non continuare l’intensificarsi del conflitto in Medio Oriente. Forse cercherà di evitare il confronto diretto con l’Iran, la Siria e l’Iraq. Ma chi lo sa? Sembra che l’amministrazione Trump possa avere un certo interesse nel dire che ha contribuito a stabilizzare il Medio Oriente. Forse, ma sono tutte congetture e nessuno lo sa veramente. 

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati