Ambiente / Approfondimento
La grave minaccia delle specie aliene invasive. Il rapporto dell’Ipbes
Le specie aliene invasive sono tra le più gravi minacce globali alla natura, alla sicurezza alimentare, alla salute umana. Hanno un ruolo chiave nell’estinzione di piante e animali e costano ogni anno oltre 420 miliardi di dollari. Il rapporto della Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici
Il granchio blu, un crostaceo proveniente dalle coste dell’oceano Atlantico occidentale, ha iniziato a diffondersi nei mari italiani (in particolare lungo le coste del Veneto e dell’Emilia-Romagna) già agli inizi degli anni Duemila: ha trovato un habitat favorevole, anche grazie all’aumento delle temperature delle acque causato dai cambiamenti climatici, e ha iniziato a riprodursi e prosperare. Al punto da diventare una presenza fissa -e sgradita- che sta causando gravi danni sia agli ecosistemi marini sia all’economia locale, in particolare agli allevamenti di vongole e cozze che vengono sistematicamente “saccheggiati” da questo vorace predatore.
Si tratta probabilmente della specie aliena invasiva più nota in questo momento nel nostro Paese -anche per il grande spazio che ha trovato sui media nel corso dell’estate- ma non è certamente l’unica. A livello globale, infatti, sono circa 3.500 quelle censite nel “Rapporto di valutazione sulle specie aliene invasive e il loro controllo” pubblicato a settembre 2023 dalla Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (Ipbes) che lancia l’allarme sulla loro diffusione, definita uno dei più gravi pericoli per la biodiversità, gli ecosistemi oltre che per la sopravvivenza delle popolazioni e delle economie locali. Si tratta di un problema globale “sottovalutato, sottostimato e spesso misconosciuto -si legge nel report-. Una delle prime cinque minacce alla biodiversità alla pari dei cambiamenti nell’uso del suolo e del mare, dello sfruttamento diretto delle specie, della crisi climatica e dell’inquinamento”.
Un fenomeno che causa anche gravi danni economici il cui costo, nel 2019, ha superato i 423 miliardi di dollari: il 92% è causato dai danni diretti mentre il restante 8% è legato ai costi di gestione legati alle misure di contrasto e controllo delle popolazioni.
Il lavoro dell’Ipbes, durato quattro anni e mezzo, ha coinvolto 86 esperti da 49 Paesi e si è basato su oltre 13mila riferimenti (compresi contributi molto significativi da parte delle popolazioni indigene e delle comunità locali) che lo rendono la valutazione più completa mai realizzata sull’argomento. La Piattaforma ha censito complessivamente oltre 37mila specie aliene: mammiferi, pesci, insetti, piante, alghe e funghi estranei all’ambiente in cui vengono a trovarsi in quanto introdotte direttamente o indirettamente dall’uomo. Non tutte però rappresentano un problema. Quelle classificate come invasive, in grado cioè di influire negativamente sugli ecosistemi e sulle popolazioni locali, sono infatti circa 3.500. La maggior parte delle segnalazioni si concentrano nelle Americhe (il 34% del totale), seguite da Europa e Asia centrale (31%), Asia Pacifico (25%) e Africa (7%). Tre quarti riguardano gli ecosistemi terrestri, principalmente boschi e foreste temperate e boreali.
Circa 2.300 specie invasive sono state rilevate nei territori abitati da popoli indigeni e rappresentano un’ulteriore minaccia per la loro sopravvivenza: “Incidono negativamente sull’autonomia, sui diritti e sull’identità culturale dei popoli indigeni e delle comunità locali attraverso la perdita dei mezzi di sussistenza e delle conoscenze tradizionali, la riduzione della mobilità e dell’accesso alla terra e l’aumento del lavoro per la gestione delle specie esotiche invasive”, si legge nel report.
I ricercatori evidenziano inoltre come molti animali e molte piante “esotiche” siano stati introdotti intenzionalmente dall’uomo in habitat diversi da quelli originari “in silvicoltura, agricoltura, orticoltura, acquacoltura o come animali domestici, per i loro benefici apparenti, senza considerare o conoscere i loro impatti negativi”. Mentre altre sono state importate involontariamente, ad esempio come contaminanti di merci scambiate o clandestini nell’acqua di zavorra, come è successo in Italia proprio per il granchio blu oltre che per la zanzara tigre.
Gli stessi fenomeni che hanno portato a un’iniziale diffusione di queste specie, come le variazioni demografiche, economiche e di uso del suolo e del mare, stanno accelerando e di conseguenza aggravando il problema. A complicare il tutto si aggiungono anche gli effetti del cambiamento climatico. “Può influenzare la diffusione delle specie invasive attraverso lo spostamento del loro areale: il clima è un fattore importante che determina la loro presenza nel paesaggio -ha spiegato Emily Fusco ricercatrice post-doc all’Università del Massachusetts Amherst-. Inoltre, quando le specie invasive si stabiliscono e si diffondono in una nuova area, spesso portano con sé i loro impatti. Quindi, per una pianta infestante come la gramigna, nota per aumentare il carico di combustibile fine e collegata all’aumento degli incendi negli Stati Uniti occidentali, ciò significa un potenziale aumento del rischio di incendi in nuovi habitat”.
Così come le comunità locali e le popolazioni indigene sono le più colpite dal fenomeno, allo stesso tempo sono quelle che hanno gli strumenti più adeguati ad affrontarlo. A partire dalla prevenzione, impedendo ad animali e vegetali esotici di entrare e di insediarsi in un habitat. In secondo luogo, vi sono i programmi di eradicazione, che hanno un tasso di successo elevato per ecosistemi chiusi e per specie a basso tasso di riproduzione. È inoltre possibile introdurre una specie non dannosa e in grado di limitare la crescita di quelle pericolose, tramite il cosiddetto controllo biologico. Secondo i ricercatori questa pratica ha avuto successo nel 60% dei casi. Infine, ripristinare gli ecosistemi danneggiati può favorire le popolazioni autoctone e aiutarle a riprendersi gli spazi perduti oltre ad aumentare la resilienza a future invasioni.
Un fenomeno ancora sottovalutato dai governi di tutto il mondo: nonostante l’80% dei Paesi abbia un programma per il controllo delle invasioni biologiche, l’83% non ha una legislazione per combattere le specie invasive e appena il 55% investe nella loro gestione. Un problema che rientra tra i 23 target globali da raggiungere entro il 2030 stabiliti alla Cop15 sulla biodiversità del dicembre 2022 a Montreal.
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