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La fine della burocrazia

È possibile trasformare le istituzioni, ma ciò "non può rappresentare una riforma dello Stato sotto mentite spoglie", realizzata cancellando -in nome di un presunto taglio dei costi della politica- meccanismi di controllo della legittimità di atti e procedure. Il commento di Alessandro Volpi      

La riforma delle burocrazie costituisce uno dei temi spesso ricorrenti nella storia italiana. È più corretto usare il termine al plurale perché il nostro Paese conosce molteplici forme e differenti pratiche di burocrazia: tante burocrazie ma un giudizio sostanzialmente negativo che si materializza nel contenuto attribuito all’aggettivo “burocratico”, inteso come sinonimo di farraginoso, lento, capzioso e irritante.

Questa qualificazione negativa delle burocrazie per molto tempo è tuttavia rimasta sottotraccia perché proprio tali corpi intermedi hanno assolto a più funzioni. Nei decenni successivi all’unità d’Italia, durante l’età giolittiana e ancora con l’avvio della fase repubblicana hanno costituito l’asse portante della nazionalizzazione dello Stato, della costruzione di un senso di appartenenza comune che è passato proprio attraverso una pletora di impiegati e di funzionari stipendiati dalle casse pubbliche. La folla dei dipendenti delle amministrazioni ha composto un popolo di “statali”, molto politicizzati, che dovevano allo Stato – e ai partiti – la loro condizione sociale. Un simile esercito è risultato, in numerosi momenti storici, pur con molti limiti, un elemento di modernizzazione rispetto alle condizioni generali di un Paese in ritardo economico e culturale.

Questo giudizio positivo, che contribuiva a stemperare la polemica sempre presente nei confronti del burocrate, peraltro identificato come il borghese per eccellenza, è rimasto vivo finché le burocrazie hanno continuato ad assorbire occupazione e fino a quando non è esplosa, in maniera conclamata, la crisi della politica. Con la deflagrazione delle difficoltà delle forme di rappresentanza organizzata e con la progressiva perdita della loro capacità di creare lavoro, l’essere parte delle burocrazie è diventato ipso facto una colpa proprio per il legame simbiotico instauratosi nel tempo fra politica e amministrazione. Allorché sono emerse l’insostenibilità della spesa pubblica e le inefficienze rispetto a processi di trasformazione sempre più veloci e complessi dell’economia e della società, le burocrazie hanno acquisito i contorni, nell’immaginario collettivo dei sempre più numerosi “non burocrati”, del male assoluto capace, da solo, di bloccare istituzioni, imprese, partiti e associazioni sindacali che in realtà scontavano anche molteplici altri problemi. 


Di fronte ad una siffatta furia iconoclasta occorrono però alcune cautele che possono essere così sintetizzate in maniera assai elementare:

1)    La sostanza della battaglia contro i lati deteriori della burocrazia non può essere, in alcun modo, riducibile alla spending review. Ridurre la spesa pubblica improduttiva è un atto fondamentale ma non può costituire la motivazione primaria sulla base della quale smontare pezzi dello Stato, soprattutto se questi garantiscono – o dovrebbero garantire – meccanismi di controllo della legittimità degli atti e delle procedure.

2)    La rivolta anti-burocratica non dovrebbe diventare il contenuto pressoché esclusivo di un linguaggio politico retto unicamente sul rifiuto, sulle negazioni e sulle rimozioni; non può essere in estrema sintesi la lotta alla burocrazia uno dei riti della religione di chi è “anti” ad ogni costo.

3)    La riforma della burocrazia, operata a colpi di decreti e di deleghe, non può rappresentare una riforma dello Stato sotto mentite spoglie. È necessario in questo senso inserire anche le modificazioni delle amministrazioni nell’ambito di un processo di revisione costituzionale che conosca una reale fase costituente. È importante, a tal riguardo, non mettere insieme sotto un’unica definizione, inevitabilmente forzata, di burocrazia, prefetture, province, dirigenti pubblici, segretari comunali e altre figure eterogenee, perché il rischio che si produrrebbe è quello di alimentare una visione non semplificata ma semplicistica dello Stato, eccessivamente schiacciata sul centro.

Occorre trovare il giusto dosaggio tra velocità ed efficienza delle decisioni, consentite dalla riduzione dei livelli amministrativi e di governo, e capacità di cogliere la complessità delle questioni in campo, possibile solo con forme efficaci di decentramento. Lo “Stato dei territori” può essere l’approdo a cui tendere senza cedere alla facile, e spesso pur motivata, gogna del travet.

* Università di Pisa

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