Nell’ultimo "Piano strategico 2016-2018", la multinazionale Oil&Gas ha annunciato dismissioni per 7 miliardi di euro entro il 2019, anche attraverso la cessione di quote dei maxi giacimenti scoperti di recente (ad esempio quello di Zohr in Egitto). Il paradigma fossile è contraddetto dalla realtà, proprio come le previsioni Eni sull’andamento del prezzo del petrolio: ecco perché votare "Sì" al referendum del 17 aprile
Non è passato nemmeno un anno dai festeggiamenti trionfali per la scoperta dell’Eni del maxi giacimento di gas naturale “Zohr” al largo dell’Egitto. Un “successo italiano” per cui si sprecarono complimenti e in bocca al lupo -“Eni: Renzi si congratula con Descalzi per giacimento Egitto”, battevano le agenzie il 30 agosto 2015-. Una pellicola già vista in passato per quello che abbiamo ribattezzato in un’inchiesta il "Gigante fragile", con i giacimenti in Mozambico, Ghana, Kazakhstan.
Poi c’è stata COP21, a Parigi, la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima, con le raccomandazioni nette che ha prodotto a proposito dell’improrogabile conversione ecologica fondata sul superamento delle fonti fossili. Le raccomandazioni si basavano (anche) su uno studio pubblicato su Nature a inizio 2015 (McGlade ed Ekins) secondo il quale, per contenere il cambiamento climatico, sarebbe stato necessario non toccare l’80% delle riserve di carbone conosciute ed estraibili, metà del gas e un terzo del petrolio.
Di fronte alle emergenti strategie planetarie, i colossi Oil&Gas hanno preferito rimuoverle come fossero un brusio piuttosto che affrontarle.
Eppure, anche dal think-tank “Carbon Tracker” giungevano inviti alla prudenza. Da tener presenti, visto che l’autore del dettagliato report (dicembre 2015) sui rischi corsi da chi ancora investiva sui combustibili fossili nonostante il cambiamento climatico aveva disegnato i contorni della “bolla del carbonio”. Una scommessa -perduta in partenza- pari a 2mila miliardi di dollari nei prossimi 10 anni, con l’Italia tra i primi 15 Paesi al mondo più esposti, ed Eni Spa con 37,4 miliardi di dollari di “investimenti non necessari”.
La prova che il brusio sia stato ignorato nonostante l’evidenza è contenuta proprio nei piani di sviluppo di Eni. L’ultimo -2016/2019, presentato a metà marzo agli azionisti- prevede uno scenario idilliaco da qui al 2019, con il prezzo del Brent risalito sotto soglia 70 dollari al barile. Il precedente -2015/2018- aveva previsto per il 2016 prezzi doppi rispetto alla realtà, e così quello precedente. Il professor Alessandro Penati l’aveva ben scritto su la Repubblica: “Sorprende l’incapacità di prevedere l’andamento del prezzo da parte di esperti, petrolieri e governi”.
È in questo quadro che vanno letti gli annunci dei vertici di Eni Spa di un piano di dimissioni pari a 7 miliardi di euro da qui al 2019. Consapevoli del fatto che il 2015 del colosso di cui l’azionista di riferimento è ancora lo Stato -detiene direttamente il 3,93% delle azioni, e indirettamente un altro 26,36, controllato da Cassa depositi e prestiti-, ha assommato 6.790 milioni di euro di svalutazioni, 4.502 dei quali alla sezione “Exploration & Production”.
Via da (una parte di) Zohr, quindi, così come via dall’Area 4 in Mozambico. Nel comunicato che sintetizza il Piano strategico 2016-2019 (indicativo il sommario, “Come avere successo a prezzi bassi, alimentando la crescita di lungo termine”), Eni l’ha chiamata “la diluizione delle nostre partecipazioni nelle recenti e importanti scoperte, in linea con la nostra strategia di dual exploration”.
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