Esteri / Approfondimento
La falsa soluzione dell’acquacoltura che sottrae risorse ai Paesi africani
La produzione di farine e olio di pesce destinata agli allevamenti occidentali mette a rischio la sicurezza alimentare di oltre 40 milioni di persone che vivono in Africa. Il ruolo delle multinazionali europee dei mangimi e il caso dell’Italia
“L’acquacoltura è spesso presentata come la soluzione, non solo al danno ambientale portato dalle tecniche di pesca insostenibile, ma anche in quanto fonte di proteine per quelle comunità colpite da insicurezza alimentare e malnutrizione. In realtà, è un’attività che continua a estrarre preziose e limitate risorse da quegli stessi oceani che afferma di proteggere”. L’ultima bocciatura nei confronti degli allevamenti ittici è arrivata quest’estate da Greenpeace Africa e dall’organizzazione Changing Markets.
In questi anni l’acquacoltura -ovvero tutto l’insieme di coltivazioni effettuate in acqua dolce o salata di specie altrimenti pescate- ha conosciuto una crescita esponenziale: nel 1950 forniva appena il 4% del pesce consumato a livello globale, oggi ha superato la metà ed è previsto che la quota continui a salire. Parte dell’espansione è dovuta alla necessità di limitare la pesca intensiva, che minaccia una specie su due tra quelle presenti in ambiente marino. L’acquacoltura avrebbe quindi un “ruolo” ambientale, che però viene messo in discussione dalle due organizzazioni, a causa dell’utilizzo di farine e oli di pesce.
“L’industria di farina e olio di pesce rappresenta un problema, in quanto utilizza i piccoli pesci oceanici per la propria produzione”, spiega ad Altreconomia Aliou Ba, consulente politico di Greenpeace per la campagna sugli oceani, criticando il ruolo delle maggiori aziende europee di mangimi: Cargill Aqua Nutrition/EWOG, Skretting, Mowi e BioMar. Ogni anno, un quinto della pesca mondiale viene trasformata in farine e oli: nel 2018 sono state utilizzate 18 milioni di tonnellate, solitamente pesci di dimensioni ridotte come acciughe o sardinelle. In seguito, le sostanze ottenute vengono impiegate nella creazione di mangimi: questi servono poi in parte per l’allevamento di maiali e polli, ma soprattutto per la produzione di pesci. Come evidenzia il report “Feeding a monster”, pubblicato lo scorso giugno da Greenpeace Africa e Changing Markets,
in oltre il 70% dei casi l’acquacoltura necessita dell’inserimento di cibo, che viene ottenuto appunto dalla pesca stessa: questo serve in particolare per le specie carnivore, come salmoni e trote, ma viene utilizzato anche per rendere più forti spigole, orate e tutte le altre specie allevate.
Il meccanismo, però, porta con sè importanti problematiche. “Se l’acquacoltura usa il pesce per nutrire gli animali che alleva, allora è chiaro come non possa essere la soluzione alla pesca intensiva -sottolinea Aliou Ba-. Diventa, anzi, un ulteriore problema”. A essere criticato è in particolare l’utilizzo di quei pesci che si trovano alla base della catena alimentare: questi giocano un ruolo fondamentale, in quanto da essi dipende l’intero ambiente marino, ed è chiaro come un loro sovrasfruttamento possa portare a danni notevoli.
Oltre a essere responsabile di un danno ambientale, la pesca finalizzata alla produzione di farine e oli di pesce ha un impatto anche socioeconomico. Questa attività si concentra infatti in aree del Pianeta a basso reddito, a cui sottrae risorse preziose, in quanto i mangimi prodotti sono poi destinati agli Stati occidentali. Il rapporto si concentra su quanto sta accadendo in Africa Occidentale, un’area dove le dimensioni del settore sono più che decuplicate nell’ultimo decennio. La crescita è dovuta alle garanzie sempre minori offerte dal Perù, da sempre primo fornitore di pescato: il fenomeno climatico di El Niño non permette di fare affidamento su una quota certa di pesci e per le aziende è stato quindi necessario cercare altre zone in cui operare. L’Africa è perfetta per questo, chiarisce Ba: “È più vicina all’Europa, inoltre i governi dell’area sono spesso corrotti e hanno la volontà di stimolare un’industrializzazione”.
Le attività del settore minano però la sicurezza alimentare di Paesi come Senegal, Gambia e Mauritania: ogni anno vengono utilizzate per produrre farine e oli circa 500mila tonnellate di quegli stessi pesci su cui fanno affidamento le popolazioni locali. La stessa quantità sarebbe sufficiente a sfamare 33 milioni di persone, in un’area in cui il pesce rappresenta la principale fonte di proteine animali per la gran parte della popolazione. Le compagnie che producono farine e oli contribuiscono al sovrasfruttamento delle risorse e lo fanno senza incontrare ostacoli significativi: spesso ai governi locali mancano fondi e coraggio per sostenere i pescatori locali, mentre non esistono organizzazioni regionali in grado di stabilire quote massime di pesca. A essere minacciati sono anche i posti di lavoro: a causa dello sfruttamento intensivo operato dalle compagnie, sono sempre più scarse le risorse disponibili per i pescatori locali. Che rappresentano una porzione non indifferente di cittadini negli Stati costieri, in Africa Occidentale. Solo in Senegal, la pesca impiega più o meno direttamente 700mila persone, quasi una persona su venti.
“Se l’acquacoltura usa il pesce per nutrire gli animali che alleva, è chiaro come questa non possa essere la soluzione alla pesca intensiva” – Aliou Ba
A essere particolarmente colpite sono le donne, che tradizionalmente si occupano di affumicare il pesce, salarlo, essiccarlo e infine venderlo: negli ultimi anni è però sempre più difficile ottenere la materia prima da lavorare e i prezzi sono aumentati, con la conseguenza che le persone si allontanano dal mercato e il ruolo delle donne viene in parte meno. Le lavoratrici si sono quindi organizzate in associazioni e gruppi, che chiedono un cambio di passo. “Le compagnie hanno più mezzi di noi -osserva nel rapporto Diaba Diop, la presidente della Rete senegalese delle donne per la pesca artigianale- se le autorità non reagiscono, noi rischiamo di perdere il lavoro”. Nonostante le richieste, però, i cambiamenti sono stati finora insufficienti, come illustra Ba: “In Senegal non vengono forniti permessi a nuove aziende, mentre in Mauritania e Gambia si sta ancora cercando di attuare alcune contromisure”.
In questo contesto l’Italia ricopre un ruolo marginale e anzi ospita alcune pratiche di acquacoltura virtuose, come spiega Giovanna Marino, dirigente di ricerca e responsabile dell’Area scientifica Acquacoltura sostenibile dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). “Soltanto un terzo della produzione d’acquacoltura, che nel 2019 si è attestata intorno alle 150mila tonnellate, proviene da allevamenti di pesci. Più rilevanti sono i molluschi, con produzioni di cozze e vongole veraci rispettivamente di 62mila e 37mila tonnellate: queste non necessitano però di mangimi e non prevedono quindi l’utilizzo di farine e oli di pesce”.
L’allevamento di molluschi si distingue per la sua sostenibilità, a partire appunto dalla mancata introduzione nell’ambiente naturale di sostanze come mangimi. Oltre a farine e oli di pesce, non sono utilizzati nemmeno antibiotici e antiparassitari, né è necessario l’uso di suolo e di acqua dolce. La molluschicoltura rappresenta poi il modo meno impattante di produrre proteine animali, con un’emissione di gas serra che è trecento volte inferiore a quella degli allevamenti di bovini, polli o maiali. Questo tipo di produzione non si limita però ad avere un impatto quasi nullo, ma può avere un ruolo positivo verso l’ambiente circostante. “Dove vi sono elevate concentrazioni di azoto e fosforo i molluschi agiscono come un depuratore, filtrano l’acqua usando queste sostanze per la loro crescita -argomenta Marino-. Hanno inoltre un ruolo fondamentale nel contrastare i fenomeni di acidificazione degli strati superficiali dell’acqua, sempre più frequenti con il cambiamento climatico: assorbono infatti l’anidride carbonica, usandola per formare i gusci e sequestrandola a lungo termine”.
La ricercatrice evidenzia la necessità di insistere sullo sviluppo dell’acquacoltura italiana ed europea e di cercare un ampliamento del settore. “Il problema non sono pesci e molluschi coltivati in Italia: qui si rispettano elevati standard ambientali, oltre che igienico sanitari. La produzione nazionale copre però soltanto il 20% del fabbisogno italiano, mentre a livello europeo si arriva al 30%. Il resto viene importato dall’estero ed è quindi pesce prodotto secondo regole spesso non conosciute o rispettando standard meno ambiziosi”.
“In Italia solo un terzo della produzione d’acquacoltura, che nel 2019 si è attestata a 150mila tonnellate, proviene da allevamenti di pesci” – Giovanna Marino
La stessa Commissione europea ha invitato quindi sulla carta gli Stati membri a sostenere uno sviluppo dell’acquacoltura, in particolare per quanto riguarda molluschi e alghe, che non necessitano di mangimi. “Una maggiore produzione sarà determinante per fornire un nutrimento sano e sostenibile alla popolazione mondiale in crescita -continua Marino-, già oggi soltanto una persona su cinque riceve una dose adeguata di proteine”.
Anche in Italia non mancano le criticità.La prima riguarda l’assegnazione delle concessioni demaniali: spesso i processi sono estremamente lunghi e serve aspettare anni prima che possano sorgere nuovi allevamenti. Proprio per ovviare alla problematica, Ispra ha pubblicato l’anno scorso una guida tecnica utile agli enti locali per individuare i luoghi più adatti ad essere utilizzati per l’acquacoltura. Infine, per quanto la protezione ambientale sia assicurata da numerose leggi, non esiste un’unica norma che regoli l’acquacoltura, prevista tra l’altro dalla legislazione italiana ed europea. “Una legge è fondamentale, servirebbe a semplificare tutto e a ridurre i potenziali impatti ambientali -conclude Giovanna Marino-. Su questo, il ministero della Transizione ecologica può fare di più”.
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