Interni
La “cura Monti” e l’economia reale
Pressione fiscale record, disoccupazione al 12,5%, 150 macrocrisi aziendali. E l’esplosione del debito pubblico, al 125,6% del prodotto interno lordo. Il governo tecnico e la Banca centrale europea stanno fallendo l’obiettivo di salvare l’Italia, spiega Alessandro Volpi, autore di "Sommersi dal debito"
La raffica di dati statistici usciti nelle ultime settimane fa concretamente temere che la “cura” Monti stia producendo una gran quantità di pericolosi effetti collaterali. È certamente vero che a novembre del 2011 lo Stato italiano era molto vicino alla condizione di insolvenza parziale -di “bancarotta”-, e per questo il governo guidato da Mario Monti ha irrobustito le precedenti manovre, portandone il peso cumulato ad oltre 81 miliardi di euro. Questa cura da cavallo, insieme alle ripercussioni della crisi globale, ha però prodotto una serie di conseguenze molto dure. Il Pil cadrà, molto probabilmente, del 2,6 nel 2012, e ben più di un punto di tale effetto recessivo dipende proprio dalle manovre messe in atto, per effetto delle quali la pressione fiscale è arrivata a sfiorare, nel 2012, il 45% del Pil. Qualche numero in più in tal senso può essere utile: con il decreto salva Italia in particolare, oltre alla pressione sui redditi da lavoro, è fortemente cresciuta anche la pressione sui patrimoni; le imposte sulla proprietà immobiliare sono salite a 36 miliardi di euro, di cui ben 21 dalla sola Imu, a cui si aggiungono altri 21 miliardi sui rendimenti finanziari e le imposte di bollo. Se si confrontano questi dati con le basi imponibili teoriche delle due voci -proprietà immobiliare e “proprietà” finanziaria- stimate dalla Banca d’Italia emerge che l’aliquota media effettiva è pari allo 0,6%; un livello tutt’altro che trascurabile e decisamente in linea con la pressione fiscale sui patrimoni esistente in Europa. In questo senso, un ulteriore inasprimento dell’aliquota media, portandola all’1%, garantirebbe, come è stato stimato, circa 14 miliardi di gettito aggiuntivo. Risorse che proverrebbero da circa 2,2 milioni di famiglie italiane, con un prelievo medio a famiglia, tutt’altro che limitato, di oltre 6 mila euro.
L’aumento del carico fiscale ha inevitabilmente inciso sulla riduzione della domanda interna, che ha perso il 4,8% in un anno, e soprattutto dei consumi pro capite, -3,6%, il livello più basso dal secondo dopoguerra, non raggiunto neppure nella fase nerissima 1992-1993. Sono crollati anche gli investimenti, diminuiti in un solo anno del 3%, con la sostanziale, consolidata, scomparsa degli investimenti pubblici sia a livello centrale che periferico. La produzione industriale è precipitata del 7,3%; un dato angosciante per un Paese che ha la seconda industria manifatturiera europea ed è colpito da ben 150 macrocrisi aziendali a cui si affianca, ora, il rischio dello smantellamento dell’intera settore dell’industria automobilistica.
In tale quadro il termometro più drammaticamente eloquente è quello dell’occupazione: dall’inizio della crisi sono spariti in Italia 1,5 milioni di posti di lavoro e l’Ufficio studi di Confindustria stima che nel 2013 la disoccupazione raggiungerà il 12,5%. Siamo dunque di fronte a dati da profondo rosso, mentre il governo sta portando avanti, con determinazione, l’opera di risanamento dei conti pubblici; un’opera certo apprezzata in Europa, che certo ha contribuito al successo della linea promossa dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, che ha favorito il compiersi del meccanismo anti spread, ma che non ha risolto il problema del debito pubblico, il cui livello è arrivato al 125,6% del Pil. Questo perché, nonostante gli enormi sforzi, pesano su tale debito i contributi italiani ai meccanismi di salvataggio europei, pari ad una cifra monstre che oscilla fra il 3,1 e il 3,7% del Pil in soli due anni, per nulla compensata dalla ancora troppo limitata riduzione del conto interessi, dal 5,4 al 5,2 del Pil.
Soprattutto, come testimoniano i dati sopra citati, la “cura Draghi” sta producendo troppi effetti collaterali dannosissimi, confermando l’amara impressione che il rigore dei conti pubblici non riesca in alcun modo ad incidere in senso positivo sull’economia reale, anzi sembra che il costo sociale ed economico del risanamento possa condurre ad un vero tracollo del paese, anche perché non funziona in alcun modo la cinghia di trasmissione del sistema bancario. La liquidità europea, il ribasso degli spread e persino il miglioramento del valore dei titoli pubblici italiani, di cui le banche del nostro Paese detengono oltre il 15%, dovrebbero favorire la ripresa del credito che, par varie ragioni, non avviene affatto. Dobbiamo fare i compiti a casa per disporre dell’ombrello europeo -che peraltro paghiamo profumatamente- e così dovremmo riuscire a raggiungere il pareggio di bilancio nei tempi previsti. Ciò ci dovrebbe consentire di finanziare il nostro debito a costi sostenibili e quindi di non fallire. Intanto però l’impegno che mettiamo nello svolgere i compiti ci svuota di ogni altra risorsa, contribuisce a farci deperire e ad impoverirci. Non può essere questa l’Europa del futuro.
* Università di Pisa