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La corsa dell’oro assomiglia all’ennesima speculazione finanziaria ben costruita

© Allison Saeng - Unsplash

Il metallo pregiato ha superato i tremila dollari l’oncia e il suo valore continua a crescere mentre le Borse toccano, al di là di una volatilità limitata, record costanti. Che cosa significa e perché dobbiamo guardare ai padroni delle scommesse finanziarie che puntano a far correre anche il prezzo delle azioni delle società che possiedono oro? Le risposte riguardano i grandi fondi (e i risparmiatori italiani). L’analisi di Alessandro Volpi

L’oro ha battuto numerosi record, arrivando a superare i tremila dollari l’oncia, con una crescita impressionante da inizio 2024, quando non arrivava a duemila. La stranezza di questa impennata, al di là della rapidità e dell’entità, è rappresentata dal fatto che si è a lungo abbinata ai record degli indici di Borsa.

In genere l’oro, essendo considerato un bene rifugio, cresce molto quando è in corso una crisi finanziaria e le risorse fuggono dalle Borse. La situazione attuale è invece del tutto diversa: l’oro è salito e continua a salire mentre le Borse toccano, al di là di una volatilità assai limitata, costanti record. Certo, l’arrivo di Donald Trump ha accentuato le incertezze e ha indebolito i listini statunitensi, ma molti altri sono cresciuti tantissimo.

Secondo alcuni osservatori questo rialzo può avere altre giustificazioni “razionali”. Si tratterebbe di una corsa determinata da tensioni geopolitiche, animate non solo da Trump ma da un più generale rischio di ripresa inflazionistica e di recessione globale per effetto di possibili guerre commerciali e della persistenza dei conflitti, a cui si abbinano varie paure sapientemente alimentate in giro per il mondo, riconducibili agli acquisti di oro da parte di alcune banche centrali, a cominciare da quella cinese; anche in quest’ultimo caso, in verità, gli acquisti sono stati decisamente più contenuti rispetto all’impennata di prezzi.  

Allora è molto probabile che ci troviamo di nuovo di fronte all’ennesima speculazione ben costruita. Il prezzo dell’oro corre perché la finanza derivata sta scommettendo a piene mani su continui rialzi e dietro questi strumenti della finanza artificiale si pongono grandi fondi che hanno bisogno di prezzi alti per rendere particolarmente attrattivi i loro prodotti, soprattutto gli Etf, verso cui indirizzare il risparmio gestito; una dinamica favorita dall’esistenza di varie tipologie di Etf che replicano il prezzo dell’oro con moltiplicatori significativi.  

È altrettanto naturale, in questo mondo dominato dalle scommesse finanziarie, che l’aumento del prezzo dell’oro faccia correre anche il prezzo delle azioni delle società che possiedono oro. Ma di chi sono queste società? Le prime due, per capacità “produttiva”, Barrick Gold e Newmont Mining, vedono la presenza dominante di Vanguard, BlackRock e State Street (le cosiddette Big Three), che convivono con il colosso dell’oro Van Eck Associates e possiedono, insieme, circa il 20% dell’azionariato. Gli stessi fondi compaiono anche in Kinross Gold. In pratica un terzo della produzione mondiale di oro è controllata dalle Big Three insieme a Van Eck.  

È chiaro che con questa forza i tre fondi possono determinare i prezzi su cui scommettono e vincere sempre; naturalmente puntando sulla costante necessità di beni rifugio indotta, come ricordato, dalle paure, vere e costruite.

Una simile corsa verso il metallo pregiato ha importanti ricadute nel caso italiano dal momento che già esiste una forte tendenza dei risparmiatori italiani ad acquistare oro che è “l’investimento” preferito delle famiglie del nostro Paese, con un ulteriore elemento rilevante. Gli acquisti di oro “retail” si stanno spostando dai lingotti e dalle monete verso gli Etf, spesso emessi da società di diritto irlandese, con chiari benefici fiscali, riconducibili all’universo dei grandi gestori: peraltro le regole fiscali introdotte da vari governi sembrano rivolte a rendere più onerose le plusvalenze sui lingotti privi di certificato rispetto agli Etf sull’oro.  

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)

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