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In India la quarantena ha reso visibili gli ultimi. E il contro-esodo non è terminato

La crisi del Covid-19 ha messo in evidenza gli “invisibili” della società indiana: milioni di persone emigrate dalle campagne per sopravvivere e precariamente occupate nelle aree urbane. Sono le “caste basse” e rurali, i nativi, i fuoricasta. Inseguono il lavoro dove c’è. Sono stati costretti a tornarsene a casa, a piedi, per le misure di lockdown. Ma il loro lavoro è indispensabile

© Action Aid India

E ora, chi spazzerà le strade? È la domanda che serpeggia nell’India urbana, dopo due mesi di emergenza sanitaria per il Coronavirus. Chi raccoglierà i rifiuti, guiderà gli autobus, faticherà nei cantieri? Il confinamento decretato in India il 25 marzo scorso ha provocato l’esodo di milioni di persone dalle aree metropolitane verso le zone rurali di quest’immensa nazione.

Riassumiamo. La sera del 24 marzo, il primo ministro indiano Narendra Modi ha annunciato un lockdown draconiano. Un miliardo e 300 milioni di cittadini indiani hanno avuto l’ordine tassativo di restare in casa. “In ogni Stato, distretto, città, ogni vicolo, ogni villaggio”, ha detto il primo ministro. Sospesa ogni attività produttiva, quelle essenziali ridotte al minimo. Sospeso ogni mezzo di trasporto urbano, extraurbano e interstatale. La conseguenza immediata è che un esercito di lavoratori manuali è rimasto senza occupazione. Il governo ha chiesto agli indiani di lavorare da casa, e così hanno fatto gli impiegati pubblici e privati, i funzionari, professionisti, accademici: la élite urbana. Ma circa l’80 per cento della forza lavoro indiana è composto da lavoratori “auto-occupati” o “a contratto” per i quali non esistono permessi, malattia o ferie pagate. Nel solo mese di aprile 122 milioni di persone hanno perso il lavoro, secondo il Centre for Monitoring Indian Economy di Mumbai. Di questi, oltre 91 milioni sono piccoli commercianti e lavoratori manuali, ma c’è anche un gran numero di lavoratori salariati (17,8 milioni) e di “auto occupati” (8,2 milioni).

Poi c’è il lavoro “informale”, che sfugge ai conteggi anche se occupa circa due terzi della forza lavoro indiana. Vi rientrano ad esempio gli operai dei cantieri edili (reclutati alla giornata), venditori ambulanti, manovali, addetti a raccogliere rifiuti, un’intera gamma di lavori servili. Quando l’India ha chiuso, questo lavoro non era più richiesto e milioni di famiglie si sono trovate senza una fonte di reddito. Così molti hanno cercato di tornare ai propri villaggi. Infatti buona parte del lavoro manuale urbano è affidato a migranti, uomini e donne di solito alloggiati in modo precario in insediamenti informali o letteralmente accampati presso i cantieri e le piccole fabbriche dove lavorano. Perso il lavoro, non avevano neppure più un luogo per dormire. Così sono partiti. E senza treni o autobus, sono partiti a piedi.

Nei primi giorni del lockdown i media indiani hanno mostrato immagini sconcertanti. Lunghe file di persone in cammino lungo le strade che escono di città, fagotti e bambini in spalla, per percorrere a volte centinaia di chilometri. Poliziotti che si accaniscono con i manganelli su famiglie colpevoli di trovarsi in strada. Agenti che spruzzano soluzioni clorate con gli idranti su gruppi di persone esauste e terrorizzate, per “fermare il contagio”. Molti sono morti di sfinimento.

Il racconto di questo gigantesco dramma è ancora frammentario. Un giornalista del quindicinale Down to Earth, Vivek Mishra, il 16 aprile si è messo in cammino con una colonna di persone partite da Ghazipur (alle porte della capitale federale New Delhi) per percorrere oltre cento chilometri fino a una cittadina dell’Uttar Pradesh, nella valle del Gange. È il racconto di una marcia estenuante. Lungo la strada compaiono camionisti che accettano a caro prezzo di trasportare di notte un carico umano; poliziotti che scoprono migranti ammassati nel rimorchio del camion, li costringono a scendere e li sbattono in “centri di quarantena”. Uomini che distribuiscono bottiglie d’acqua minerale e la polizia che ordina di sciogliere l’assembramento. Padroncini di fabbriche che portano i loro lavoranti sulla strada interstatale e li abbandonano là, non volendo pagargli il salario durante il lockdown. Corruzione, profittatori che però almeno offrono qualche soluzione. O abitanti di modestissimi villaggi che lungo il cammino preparano cibo e acqua per rifocillare le carovane in marcia. Alcune tappe del viaggio sono state raccontate sui social media (in hindi ad esempio qui, qui e qui) e illustrate durante un seminario online del Centre for Science and Environment il 22 maggio; il reportage completo sarà pubblicato a giugno.

“Maltrattati in città, tornano ai villaggi perché l’unica rete di sicurezza su cui possono fare affidamento è quella familiare”, fa notare Priya Deshingkar, ricercatrice all’Università di Sussex e studiosa delle migrazioni. Se il grande esodo ha colto di sorpresa il governo è perché le istituzioni pubbliche non hanno una conoscenza precisa delle migrazioni interne, dice la ricercatrice. Usando fonti dell’industria è arrivata alla stima di oltre 100 milioni di persone che lasciano ciclicamente i propri villaggi con l’intenzione di restare fuori una stagione, alcuni mesi o alcuni anni e poi tornare (parla di “migrazione circolare”). “Appartengono di solito ai gruppi più svantaggiati della società”, le caste basse rurali, i nativi, i fuoricasta. “Inseguono il lavoro dove c’è”.
“Sono reclutati senza contratti formali e senza protezioni -spiega Deshingkar-. Sono la forza lavoro docile e flessibile che manda avanti le fabbriche, le imprese dell’agroalimentare o del tessile, il commercio, i trasporti. Non conoscono i propri diritti e non osano protestare per non perdere il lavoro”. Secondo Deshingkar questa forza lavoro migrante produce circa il 10 per cento del Prodotto interno lordo indiano. A loro resta in tasca ben poco. La crisi del Coronavirus ha interrotto tutto questo in modo brusco.

Solo alla fine di aprile il governo centrale ha finalmente istituito treni speciali per i migranti, e centinaia di migliaia di persone si sono riversate nelle stazioni: al 19 maggio avevano trasportato 2,1 milioni di persone.

Ma il drammatico esodo non è terminato. Anche ora che il lockdown è ufficialmente allentato e il governo chiede agli indiani di tornare al lavoro per salvare l’economia, milioni di persone continuano a voler tornare ai propri villaggi. Lo conferma un’indagine di Ekta Parishad, movimento popolare di ispirazione gandhiana che conta su una rete capillare di volontari nelle comunità più marginalizzate, rurali e urbane. Tra la metà di aprile e il 20 maggio Ekta Parishad ha interrogato oltre 31mila migranti in 15 Stati indiani; la gran parte non aveva ricevuto nessun aiuto e aveva cibo solo per pochi giorni. Ma ha scoperto che chi è rimasto in città cerca ancora di andarsene, nonostante una prospettiva di povertà. Per quanto parziale, l’indagine dei volontari gandhiani è l’unica condotta in queste settimane di lockdown. Intanto grandi Stati agricoli non trovano braccianti per il raccolto e molti stati sospendono la legislazione del lavoro, suscitando l’allarme dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

Nelle città indiane “i servizi municipali sono sguarniti e i costruttori sono nel panico perché hanno bisogno di operai”, osserva Sunita Narain, co-fondatrice del Center for Science and Environment (una delle più autorevoli organizzazioni ambientaliste indiane) e direttore del settimanale Down to Earth. “Finora queste persone erano invisibili. Il loro lavoro era dato per scontato e a buon mercato. Non ci chiedevamo perché tanti vivono in slum abusivi, esposti ai fumi inquinanti delle fabbriche, senza un alloggio decente”, continua Narain. Ora che manca, “il valore di quel lavoro diventa visibile”.

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