Economia / Inchiesta
Inchiesta sul copyright: gli interessi dei colossi e la censura che non c’è
L’Unione europea vuole tutelare il diritto d’autore e porre limiti allo strapotere delle grandi piattaforme online, da Google a Facebook. Ecco perché chi grida alla censura fa un favore ai giganti del web
I corsari della rete non sono mai stati così vicini. Basta poco per rendersene conto. Cercate su YouTube il canale ufficiale del cantante britannico Ed Sheeran, l’artista che nel 2017 ha stracciato le classifiche mondiali per dischi venduti e singolo trasmesso (dati International Federation of the Phonographic Industry, IFPI, 2018). Poi selezionate il brano “Shape of You”. Il tempo di un breve spot profilato sui vostri gusti e abitudini di navigazione e lo show può cominciare. Sembra gratis.
Non siete i soli: nel 2017, a livello globale, gli utenti che hanno utilizzato piattaforme “video streams” -campo in cui YouTube schiaccia i rivali (Soundcloud, Vimeo, Pinterest)- sono stati oltre 1,3 miliardi. Quelli delle piattaforme “audio streams” (Spotify, Deezer, Apple Music e altre 500 solo in Europa che distribuiscono musica legalmente, gratuitamente o a pagamento in versione “premium”), sono stati invece 272 milioni. Un quinto. Eppure una piattaforma come YouTube ha riconosciuto ai detentori dei diritti meno di un dollaro per utente. Spotify tra le venti e le quaranta volte di più. Il risultato finale è che i 272 milioni di utenti streaming audio hanno generato per l’industria discografica ricavi per 5,5 miliardi di dollari contro gli 850 milioni delle piattaforme UUC (User Uploaded Content).
Il divario tra i proventi pubblicitari realizzati da un soggetto come Google (proprietario di YouTube) e il valore restituito alla comunità che ha prodotto quei contenuti artistici (in questo caso, musica) prende il nome di “value gap”. YouTube, infatti, si rifiuta di stipulare contratti o licenze con gli artisti limitandosi a riconoscere loro una parte degli introiti pubblicitari realizzati dal contenuto “caricato” sulla piattaforma. E quando le licenze vengono sottoscritte (con la PRS nel Regno Unito o con GEMA in Germania) le condizioni contrattuali non sono equilibrate.
“Ho iniziato a lavorare nell’industria discografica vent’anni fa ho visto cambiare i suoi nemici -spiega Luca Vespignani, segretario della Federazione contro la pirateria musicale e multimediale (FPM, fimi.it/fpm)-. Un tempo erano quelli che tramite le grandi centrali di masterizzazione sfornavano decine di migliaia di cd falsi che poi venivano venduti per le strade. Il pirata per eccezione. Oggi lo scenario è cambiato. Quel fenomeno è praticamente scomparso ed è stato sostituito nel corso degli anni da una pirateria digitale molto pesante, sulla quale si è intervenuti anche con strumenti innovativi”. Nel frattempo però è cambiato tutto. Usciti di scena i pirati si sono imposti nuovi interlocutori: gli intermediari online. “Mi riferisco a Google, Facebook, fino ai più piccoli -continua Vespignani-. Quello che l’industria musicale chiede loro da anni è un ri-bilanciamento dei diritti e dei doveri delle piattaforme. Perché l’industria musicale si è totalmente riconvertita: dopo aver perso il 70% del mercato in 15 anni fino a tre anni fa, oggi è tornata a crescere, ha fatto investimenti stratosferici, è andata completamente sul digitale, un’operazione solo apparentemente facile, e si è andata a scontrare con questi intermediari che di guadagnano parecchi soldi dagli investimenti fatti dall’industria del diritto d’autore grazie allo sfruttamento della musica. E allora si è chiesto con forza di equilibrare quanto meno il regime di responsabilità, perché queste piattaforme hanno sempre goduto di una totale esenzione”. Il nodo sta qui. Le piattaforme, infatti, si qualificano come ospiti neutrali, grazie all’etichetta di “host provider passivo”. Lo possono fare in forza di regole risalenti a quasi vent’anni fa, come il regime di “Safe Harbor” istituito nel 2000 tramite la direttiva europea sul commercio elettronico (2000/31/CE).
Il tema non riguarda solo il diritto d’autore (o “copyright”) e la sua tutela ma soprattutto i diritti fondamentali delle persone -la riservatezza, la libertà di espressione, la creatività, la sicurezza- di fronte ai colossi della rete. In una realtà che non può più distinguere tra online e offline.
Per comprendere il passaggio è necessario fare un salto indietro a metà settembre di quest’anno e atterrare a Strasburgo. È il 12 settembre 2018 e il Parlamento europeo è riunito in plenaria. In discussione c’è un pacchetto di emendamenti a una proposta di direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale presentata circa due anni prima dalla Commissione europea. La cosiddetta “direttiva copyright”. Il relatore è l’europarlamentare Axel Voss (Partito popolare europeo). Per illustrare il contenuto della proposta, già respinta una volta a luglio dall’emiciclo dopo un’intesa attività di lobby dei “tech giant”, usa parole nette: “Vogliamo impedire che lo sfruttamento degli artisti europei possa continuare su internet. Siamo alla mercé di grandi aziende tecnologiche che da anni guadagnano molto grazie anche alle opere dei nostri artisti e dei nostri e creativi. Non si tratta di distruggere internet”. Fuori dal palazzo manifestano gli artisti riuniti nella campagna internazionale “Europe for creators” (europeforcreators.eu). Chiedono “condizioni eque di negoziazione, trasparenza negli accordi di licenza e tutela dell’industria culturale creativa in Europa” da parte delle piattaforme UCC (che solo in Europa contano circa 600 milioni di utenti attivi al mese). L’“industria culturale” è un settore che “vale” oltre 500 miliardi di euro all’anno e dà lavoro a più di 12 milioni di persone, come ricorda Véronique Desbrosses, direttore generale dell’associazione europea degli autori (GESAC, European Grouping of Societies of Authors and Composers, authorsocieties.eu). Una larga maggioranza dà il via libera (438 sì, 226 no e 38 astenuti). È il finimondo: il vice-presidente del Consiglio italiano, Luigi Di Maio, denuncia su Facebook che “Il Parlamento europeo ha introdotto la censura dei contenuti degli utenti su Internet” e che “stiamo entrando ufficialmente in uno scenario da Grande Fratello di Orwell”. La realtà è un’altra.
Prima di tutto un testo definitivo della direttiva non c’è: è ancora in corso la negoziazione (“Trilogo”) tra Parlamento, Consiglio e Commissione europea che dovrà produrre un testo finale non prima dell’inizio del 2019. Dopodiché ogni Stato dovrà recepirlo, il che richiede almeno due anni. Sta di fatto che gli articoli incriminati dell’impianto normativo sono due. L’11, come recita il titolo, riguarda la “Protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo digitale”. L’obiettivo è quello di stabilire un “diritto connesso” che garantisca agli editori di giornali e agli autori delle news il riconoscimento del valore a seconda della fruizione degli articoli in rete (esclusi ovviamente gli usi non commerciali del singolo utente). Un diritto di riproduzione, comunicazione, distribuzione che punta a far sedere al tavolo con gli editori quelle piattaforme online che oggi rifiutano l’idea di corrispondere ai primi una percentuale dei loro introiti. “Noi rendiamo ricca la rete per quanto riguarda la produzione di informazione e notizie -spiega Isabella Splendore, responsabile dell’area Giuridica e internazionale dalla Federazione italiana editori giornali (FIEG, fieg.it)-, e per poter continuare a offrire questo servizio è necessario che tutto ciò che gira intorno, e cioè la remunerazione che arriva ai provider attraverso la pubblicità e la profilazione dell’utente, venga condiviso con l’editore. Perché in questo modo le grandi piattaforme stanno consolidando il loro potere basandosi su elementi che possono sembrare eterei ma che in realtà hanno uno specifico valore economico”.
Poi c’è l’articolo 13 sull’“Utilizzo di contenuti protetti da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione (il Parlamento emenderà in ‘di condivisione di contenuti online’, ndr) che memorizzano e danno accesso a grandi quantità di opere e altro materiale caricati dagli utenti”. I due articoli condividono un principio che è poi una presa d’atto: Google e Facebook memorizzano, rendono accessibili e trasmettono quantità significative di contenuti protetti dal diritto d’autore caricati o messi a disposizione dagli utenti. Non solo: li ottimizzano e promuovono a fini di lucro, ne agevolano la visualizzazione mediante l’attribuzione di “tag”, la cura e il “sequenziamento”, indipendentemente dal mezzo utilizzato. Il che porta a una conclusione elementare: i colossi devono rispondere dei contenuti altrui che monetizzano, e attivarsi per tutelare il diritto di terzi -e quindi non soltanto gli artisti-. Per usare le parole di Nunzia Ciardi, direttore della Polizia postale, intervenuta a poche ore dal voto del Parlamento europeo a un convegno sulla pirateria organizzato dal Consiglio superiore della magistratura, quegli articoli della direttiva (in principio) porteranno le piattaforme che ospitano e danno modo di fruire contenuti di “mettere degli algoritmi per filtrare” quelli protetti da diritto d’autore o “a pagare gli autori di quei contenuti pubblicati e di cui si offre la fruizione online”. Anche a costo di intaccare di poco la miniera d’oro pubblicitaria che a oggi gli garantisce ricavi per qualcosa come 95 miliardi di dollari su 110 (Google nel 2017) o 39 miliardi su 40 (Facebook, 2017). Pubblicità che deriva (anche) dai contenuti coperti da copyright o le news di editori e giornali e che prende il volo -nel caso dell’Europa- verso Paesi a fiscalità agevolata (vedi box). Questo riconosciuto passaggio da provider “passivo” ad “attivo” -del quale sono stati esentati piccole società, start-up, enciclopedie libere e “cloud storage” come Dropbox- ha una portata rivoluzionaria ma non è un fulmine improvviso. “Negli ultimi anni il diritto e la giurisprudenza europeo si sono sviluppati proprio in questa direttrice”, spiega Eleonora Rosati, professore associato di Proprietà intellettuale all’Università di Southampton. Una direttrice di cambiamento che coinvolge la natura stessa delle piattaforme. “Oggi queste sono inserite in un contesto disegnato in epoca molto diversa. Le norme che applichiamo per qualificarle sono state introdotte nel 2000 e nel 2001. Quando cioè Google aveva due anni, YouTube e Facebook non esistevano. L’ecosistema internet era ben altro”. E sebbene la zona che definisce la responsabilità dei “provider” sia ancora molto grigia, qualcosa è successo. Lo ha dimostrato il “caso” della piattaforma di pirateria “Pirate Bay” e il pronunciamento della Corte di giustizia europea (Ziggo C-610/15). Nella “baia dei pirati” non veniva caricato o “ospitato” alcun contenuto dalla piattaforma quanto semmai una serie di link a siti Torrent (protocollo peer-to-peer che consente la distribuzione e la condivisione di file su Internet) da cui l’utente poteva scaricare contenuti in violazione del diritto d’autore. “La Corte -spiega Rosati- ha riconosciuto che anche se non c’è nessun contenuto ospitato sulla piattaforma questa è responsabile per la violazione del diritto d’autore”.
Ancor prima della vicenda “Pirate Bay”, nel maggio 2014, la Corte di giustizia europea si è espressa sul caso “Google Spain” (C-131/12) riconoscendo che il “gestore di un motore di ricerca ‘raccoglie’ dati […], che egli ‘estrae’, ‘registra’ e ‘organizza’ successivamente nell’ambito dei suoi programmi di indicizzazione, ‘conserva’ nei suoi server e, eventualmente, ‘comunica’ e ‘mette a disposizione’ dei propri utenti sotto forma di elenchi”. E che “vista la gravità potenziale di tale ingerenza è giocoforza constatare che quest’ultima non può essere giustificata dal semplice interesse economico del gestore di un siffatto motore di ricerca in questo trattamento di dati”. Una tesi che ancora prima del pronunciamento definitivo della Corte europea aveva sostenuto la Procura di Milano, in particolare i pubblici ministeri Francesco Cajani e Alfredo Robledo al tempo del “caso Google-Vividown”, con la multinazionale alla sbarra per la condivisione nel 2006 di un video che ritraeva le vessazioni a danno di un minore con disabilità.
La Corte europea ha dato ragione alla Procura di Milano, come ricorda anni dopo Cajani, intervenuto accanto a Ciardi sul tema della pirateria informatica. In tema di provider, il sostituto procuratore suggerisce di allargare lo sguardo oltre il diritto d’autore. “Se il motore di ricerca indicizza il dato, quello stesso motore di ricerca non può esimersi dalla responsabilità. E se il dato, sia esso relativo al diritto d’autore (il film pirata), alla riservatezza della persona (il video del ragazzo con disabilità vessato), all’attività di proselitismo a fini di terrorismo (il video che inneggia alla jihad), bene -conclude Cajani- se quel dato non prodotto dalla piattaforma viene indicizzato dalla piattaforma stessa a fini economici allora c’è una responsabilità dell’internet service provider”. Non c’entrano solo le major, quindi, c’entriamo noi. Tanto che la Commissione europea a fine 2017 ha dedicato una comunicazione ad hoc a proposito di “Lotta ai contenuti illeciti online” intitolata proprio “Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online”. “La Commissione -si legge- confida che nei prossimi mesi le piattaforme online intraprenderanno azioni rapide, anche nel contesto dei pertinenti dialoghi, in particolare nel settore del terrorismo e dell’incitamento all’odio”.
Ma alle parole “filtri” o “controlli automatizzati” scattano riflessi singolari. Possibile controllare ciascun video caricato dagli utenti se, com’è il caso di YouTube, il ritmo è di 1 milione di upload al mese? Sembrerebbe di no. E invece è il contrario.
Lo sa bene Sebastiano Battiato, professore ordinario di Informatica presso il dipartimento di Matematica e Informatica dell’Università di Catania, fondatore della spin-off universitaria iCTLab e tra i più autorevoli conoscitori delle “Multimedia Forensics”, ovvero l’analisi di contenuti a fini sia della tutela del copyright sia della manipolazione a scopo di autenticarne la provenienza e l’integrità. Nel 2009 ricevette un incarico dalla Procura di Milano nell’ambito del processo “Google-Vividown”. I pm volevano sapere se all’epoca dei fatti -risalenti al 2006- fossero già disponibili tecnologie in grado di automatizzare il processo di classificazione dei contenuti multimediali presenti nella Rete e quindi in grado di effettuare un controllo di qualche tipo sui contenuti pubblicati sul servizio Google-Video (l’antenato di YouTube). Battiato ne certificò l’esistenza “in maniera inequivocabile e documentata”, smentendo le tesi della multinazionale.
Nove anni dopo quella consulenza, Battiato sorride quando sente chi lamenta il rischio di “censura automatizzata”. “Tutti i player, soprattutto i più importanti, hanno al loro interno interi dipartimenti di ricerca e sviluppo che lavorano su questo tipo di tecnologie. L’analisi dei contenuti da un punto di vista semantico di articoli, testi, immagini, video, è una cosa che Facebook, Google e Amazon già sanno fare. Il punto è qual è l’obiettivo che li muove”. Come funziona tecnicamente questo “filtro”? “Per controllare che certi contenuti pubblicati in rete violino o meno il diritto d’autore ho bisogno di avere in anticipo contezza di quali sono i contenuti da proteggere. Su questa banca dati di contenuti faccio poi ‘girare’ degli algoritmi che estraggono una sorta di finger print, un’impronta digitale. Non appena qualcuno prova a mettere dentro una piattaforma un contenuto di questo tipo lo stesso algoritmo farà matching della firma del contenuto rispetto a quello che ho in banca dati”. In passato si diceva che questa operazione fosse complicatissima, specie sotto il profilo computazionale, a fronte della numerosità dei contenuti e della potenza di calcolo necessaria. “Oggi non è più così -replica Battiato-, abbiamo una potenza di calcolo in grado di fare in tempo reale questo tipo di analisi”.
2000 e 2001: a questi anni risalgono le norme europee che definiscono la “natura” delle piattaforme online (provider) come Google e Facebook
Un esempio su tutti è quello di Facebook. “Ogni singola foto postata su un canale social all’interno viene taggata da Facebook con i contenuti. Significa che in ogni immagine vi sono tag testuali che mi dicono ‘foto con bambino’, ‘bambini che sorridono’, ‘adulti’, le azioni che si stanno compiendo dentro l’immagine, c’è un livello di tagging che l’utente comune non vede ma che va ben oltre”. Ma se siamo così avanti, com’è possibile questo ritardo rispetto a contenuti coperti da copyright e quindi sulla carta più semplici da catalogare e proteggere? Battiato non aggira il problema. “Una piattaforma come YouTube cerca di raggiungere accordi con le case produttrici di contenuti. Faccio un esempio: se non vuoi che sulla piattaforma gli utenti carichino dei contenuti di tua proprietà, mi paghi e io te li trovo. Anche questo attualmente è diventato un modello di business”. Controllare il copyright se si è pagati per farlo. Dunque la direttiva europea smonterebbe questo modus operandi? “Esattamente. Non è tanto un problema di censura”, continua Battiato. La sensibilità però non è la stessa per tutti i contenuti. “Sulle immagini attualmente il controllo sul copyright sostanzialmente non viene fatto, non perché non si possa fare ma perché c’è meno esigenza, meno business. Su audio e video invece ci sono gli interessi delle major discografiche e hollywoodiane che sono molto più attente, richiedendo e pagando controlli di questo tipo”.
I pirati già lo sanno. Ora tocca convincere quelli che il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, ha definito al convegno sulla pirateria di metà settembre, i “corsari”. Ovvero gli “OTT”, gli over the top, i big-tech. “I corsari non pagano le tasse, non hanno una legislazione antitrust, succhiano tutti i dati delle persone, li commercializzano e alla fine il rischio è anche che saremo manipolati una volta che hanno acquisito tutto di te. E tutto questo avviene in totale assenza di regole. Mi fa ridere che una direttiva europea sul diritto d’autore porti a parlare di censura. È ridicolo: sappiamo tutti che il diritto d’autore garantisce la produzione della libertà di espressione, che è l’essenza di una democrazia”.
BOX – Fisco e colossi del web: la via irlandese.
In materia fiscale, Google e Facebook ricorrono al cosiddetto “meccanismo irlandese”. L’inserzionista acquista servizi dalla “casa madre” irlandese -che a Dublino paga un’aliquota molto bassa-, la quale a sua volta paga attività di marketing condotte nel nostro Paese dalla filiale italiana, generandole ricavi di gran lunga inferiori al “giro d’affari” reale. Google opera in Italia con la Google Italy Srl: “appena” 94,5 milioni di euro di ricavi garantiti nel 2017 quasi interamente dalla consociata di stanza in Irlanda. Allo stesso modo Facebook agisce nel nostro Paese tramite la Facebook Italy Srl: 11 milioni di euro di ricavi nel 2017, 10,9 provenienti dalla Facebook Ireland Ltd.
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