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In tutto il mondo la salute delle donne è ancora a rischio
Sebbene negli ultimi anni siano stati fatti passi in avanti, le morti per parto restano ancora elevate così come il numero di matrimoni precoci e l’incidenza di pratiche dannose come le mutilazioni genitali. In occasione della giornata internazionale per la salute, l’Ong WeWorld pubblica un rapporto sulla giustizia sessuale e riproduttiva
Ogni due minuti una donna muore per cause legate alla gravidanza o al parto. E solo il 66% delle donne in gravidanza riceve almeno quattro controlli prenatali, il numero consigliato dall’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms): ma il dato scende a percentuali comprese tra il 53-55% in Africa e in Asia Meridionale. Senza trascurare le differenze interne ai singoli Paesi: il 78% delle donne che vivono in aree urbane, ad esempio, si sottopongono ad almeno quattro controlli mentre nelle aree rurali la percentuale scende al 56%. Tra coloro che invece decidono di ricorrere a un aborto, il 45% subisce questo intervento in condizioni che vengono definite “non sicure” (ad esempio quando non viene praticato da professionisti sanitari) la cui incidenza è significativamente più alta nei Paesi che hanno leggi in materia particolarmente restrittive e nei 23 in cui è proibito in qualsiasi circostanza. L’esito, in questi casi, può anche essere fatale: le stime in materia suggeriscono che, ogni anno, tra il 4,7% e il 13,2% dei decessi materni sia da attribuire ad aborti non sicuri. Inoltre sono circa 200 milioni le donne e le ragazze che hanno subito una mutilazione genitale e devono convivere, per il resto della propria vita, con le conseguenze dolorose e talvolta invalidanti di questa pratica.
Sono alcuni dati contenuti nell’Atlante “We Care” curato dall’organizzazione umanitaria We World e pubblicato in occasione della Giornata internazionale della salute che si celebra il 7 aprile. Il rapporto approfondisce le principali discriminazioni e negazioni di diritti che donne, bambini, bambine e adolescenti devono subire ancora oggi e si compone di sei sezioni: salute natale, politiche del corpo, violenza di genere, wash e diritti sessuali e riproduttivi, salute mestruale e salute e benessere sessuale.
L’Atlante mette al centro il tema della “giustizia sessuale e riproduttiva”, intesa non solamente come erogazione e garanzia di accesso ai basilari diritti sessuali e riproduttivi di bambine, donne e ragazze, ma anche come diritto alla privacy, alla vita, all’educazione su questi temi, all’informazione e alla libertà da ogni forma di violenza. “Dove non c’è spazio sicuro per cambiarsi un assorbente, per ricevere i controlli fondamentali in gravidanza o per decidere liberamente del proprio corpo, donne e bambine non hanno spazio per autodeterminarsi. In tutti questi casi, negando la giustizia sessuale e riproduttiva, viene di fatto negata la parità di genere -spiega Martina Albini del centro studi di WeWorld-. Sono numerose le categorie sociali che continuano a vedersi negato il diritto alla salute e subiscono discriminazioni: le donne, le bambine e i bambini, gli adolescenti, la comunità LGBTQIA+, le persone con disabilità, le popolazioni indigene, le minoranze etniche, i rifugiati. Le persone appartenenti a queste categorie pagano il prezzo più alto, e nelle aree del mondo come l’Africa Sub-sahariana, l’Asia Centro-meridionale, il Medio Oriente e l’America Latina, spesso caratterizzate da conflitti e disuguaglianze la situazione peggiora drasticamente”.
L’Atlante dedica particolare attenzione a quelle che sono vere e proprie emergenze sanitarie (e non solo) che interessano ogni anno milioni di donne: a partire dai matrimoni precoci (che riguardano 12 milioni di bambine e ragazze under 18), che spesso portano queste giovani e giovanissime spose ad affrontare il peso e i rischi legati a una gravidanza precoce. Secondo le stime dell’Oms, ogni anno circa 21 milioni di ragazze di età compresa tra i 15 e i 19 anni rimangono incinte e 12 milioni danno alla luce un bambino.
Non mancano segnali incoraggianti. A livello globale, ad esempio, la mortalità materna (ovvero il numero di decessi tra le partorienti ogni 100mila nati vivi) è passato dalle 339 del 2000 alle 223 del 2020. Ma la situazione resta particolarmente critica nei Paesi dell’Africa Sub-sahariana, che registra una media di 535 morti ogni 100mila nati vivi. Con picchi di 1.223 in Sud Sudan, 1.047 in Nigeria e 1.063 in Ciad. L’aumento dei livelli di istruzione, inoltre, ha permesso di ridurre i matrimoni precoci salvando 25 milioni di bambine (soprattutto nei Paesi dell’Asia Meridionale) da questa pratica. Tuttavia “al momento nessuna regione del mondo è sulla buona strada per eliminarli entro il 2030, come previsto dall’Agenda per lo sviluppo sostenibile -si legge nel report-. Per porre fine alla pratica a livello globale, i progressi devono essere notevolmente accelerati e sostenuti. Senza ulteriore accelerazione, più di 120 milioni di ragazze in più si sposeranno prima di compiere 18 anni entro la fine del prossimo decennio”.
Il rapporto di WeWorld si concentra poi su alcuni aspetti apparentemente secondari, ma che possono avere profonde ripercussioni sulla vita quotidiana di milioni di ragazze e di donne in tutto il mondo, a partire dall’accesso all’acqua potabile, ai servizi igienico-sanitari e all’igiene che sono fondamentali per garantire la salute sessuale e riproduttiva e, al contempo, la parità di genere. Per le studentesse adolescenti, ad esempio, avere accesso a bagni puliti e sicuri dove cambiarsi durante i giorni delle mestruazioni è fondamentale per consentire loro di frequentare la scuola con regolarità: frequenti assenze, infatti, possono spingere le giovani più fragili o con meno sostegni a interrompere precocemente il proprio percorso di studi.
In Etiopia, ad esempio, il 50% delle ragazze perde da uno a quattro giorni di scuola per questo motivo. In Kenya si stima una perdita media di quattro giorni al mese, per un totale di 165 giorni di apprendimento in meno su quattro anni. “Tale criticità, però, non interessa solo i paesi del Sud globale -si legge nel rapporto-. Nel Regno Unito, uno studio di Plan International ha rilevato che il 64% delle ragazze tra i 14 e i 21 anni ha perso parte o un giorno intero di scuola a causa delle mestruazioni, e il 13% delle ragazze perde un giorno intero di scuola almeno una volta al mese”.
Altro tema cruciale è l’accesso ai metodi contraccettivi e agli strumenti di pianificazione familiare. Da un lato a livello globale si è registrato un sensibile miglioramento (la percentuale di coloro che riescono ad accedere a metodi contraccettivi moderni è passata dal 73,6% del 2000 al 76,8% nel 2020) dall’altro quattro donne su dieci, impegnate in una relazione non ne utilizzano alcuno. WeWorld ricorda come una corretta pianificazione familiare consenta di ritardare le gravidanze nelle ragazze adolescenti (che, rispetto alle donne con più di vent’anni, corrono maggiori rischi per la propria salute) oltre a essere uno strumento essenziale per garantire parità di genere ed emancipazione femminile e un fattore chiave per ridurre la povertà. Infatti, riducendo i tassi di gravidanze indesiderate, la pianificazione familiare può anche giovare all’istruzione delle ragazze e creare opportunità per le donne di partecipare più pienamente alla società, compresa la possibilità di avere un lavoro retribuito.
Uno scenario articolato e reso ancora più complesso negli ultimi anni a seguito dell’impatto del Covid-19, che ha causato un rallentamento negli sforzi messi in atto dalle agenzie e degli operatori umanitari nel rispondere a tutte le esigenze non direttamente connesse alla pandemia. “Oggi, il rilancio dei diritti e della salute sessuale e riproduttiva, dell’autonomia corporea e della libertà dalla violenza di genere è ulteriormente messo in pericolo da limitazioni dei diritti delle donne e dal permanere di situazioni di conflitto e crisi protratte -conclude l’Atlante di WeWorld-. Ancora una volta, a pagare il prezzo più alto, sono donne, bambine e bambini che vivono in aree caratterizzate da povertà cronica, conflitti e disuguaglianze tra cui, in primis, l’Africa Sub-sahariana, seguita da Asia Centro-meridionale, Medio Oriente e America Latina. In questo scenario, prove emergenti suggeriscono che l’offerta di programmi di educazione sessuale a bambini e giovani a scuola può avere un effetto positivo su questioni sociali più ampie, come la parità di genere, i diritti umani e il benessere e la sicurezza delle nuove generazioni. Ne consegue che, laddove non vi è una corretta educazione sessuale, non si possa parlare di giustizia sessuale e riproduttiva”.
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