Economia / Opinioni
In guerra e in pandemia chi non vuole toccare il fisco vive nell’Iperuranio
Sei lavoratori su dieci in Italia hanno un contratto scaduto e si sta sempre più dilatando la distanza tra i redditi. La guerra peggiora la situazione ma qualsiasi proposta di tassare le rendite finanziarie viene giudicata un abominio. L’analisi di Alessandro Volpi
Il tessuto sociale italiano sta andando incontro al serio pericolo di una crisi sociale profonda mentre la finanza è in piena agitazione e la politica pare blindata nel suo “feticismo” fiscale. I dati del Cnel mettono in luce, con chiarezza, infatti che sei lavoratori italiani su dieci hanno un contratto scaduto. In altre parole su 13 milioni di lavoratori coperti da un contratto nazionale, oltre sette milioni hanno un contratto scaduto. Si tratta di una situazione molto pesante in presenza di un’inflazione che rischia di arrivare rapidamente al 10%.
I contratti scaduti, infatti, sono stati definiti con un’inflazione non troppo distante dal 2%. È evidente quindi che è in atto un rapido impoverimento di una larga porzione del mondo del lavoro italiano, peraltro quella che dispone di maggiori garanzie rispetto ai precari e a gran parte degli autonomi. Ma il problema è reso ancora più grave dal fatto che secondo l’attuale “Patto per la fabbrica”, la normativa vigente, i rinnovi dovrebbero avvenire in base all’Ipca, cioè all’Indice dell’inflazione depurato dai beni energetici, del tutto inadeguato a garantire la tenuta del potere d’acquisto visto l’assoluto rilievo della componente dei prezzi dell’energia nella determinazione dell’inflazione.
Occorre quindi uno sforzo di rapida accelerazione nei rinnovi e soprattutto nella determinazione di un indicatore diverso per evitare un ulteriore peggioramento delle condizioni delle retribuzioni reali dei lavoratori italiani.
Confindustria ha però già dichiarato la propria resistenza a una modifica in tale senso, dimostrando di trascurare il fatto che senza un vero miglioramento delle condizioni retributive, in un contesto inflazionistico, si indebolirà ancora il già fragile mercato interno, rendendo il nostro sistema produttivo dipendente in maniera patologica da esportazioni in questa fase assai complicate. Pensare di scaricare il rialzo dei costi dell’energia e delle materie prime sul lavoro sarebbe, di nuovo, un errore madornale, oltre che un’ingiustizia.
Mentre si sta dilatando, proprio per effetto dell’inflazione, la distanza nei redditi degli italiani, la Borsa di Milano, come accennato, è oggetto di vere e proprie scorribande animate da gruppi esteri che lanciano o fanno presagire Offerte pubbliche di acquisto (Opa) nei confronti di realtà del nostro Paese. I francesi di Credit Agricole hanno dichiarato di aver acquisito azioni di Bpm raggiungendo il 9,2% e facendo presagire, al di là delle dichiarazioni ufficiali, di voler andare oltre per il controllo di uno dei principali istituti italiani.
Nel frattempo, Benetton, in cordata con il fondo hedge Blackstone, prova a riconquistare Atlantia, utilizzando le risorse del grande trader americano e la liquidità versatale da Cassa depositi e prestiti; in sostanza un vero paradosso che peraltro avrebbe dovuto legarsi all’idea degli spagnoli di Florentino Perez di acquisire il controllo della rete autostradale italiana.
È ancora aperta, poi, la prospettiva di acquisizione di Tim ad opera del fondo Kkr.
In queste settimane “di guerra” e di fiammate inflazionistiche è in corso una battaglia finanziaria che potrebbe concludersi con una vera e propria colonizzazione estera di asset strategici del nostro Paese e che potrebbe avere conseguenze rilevanti sui livelli occupazionali di varie imprese italiane già danneggiate, come ricordato, dal caro energia. Intanto, mentre la Borsa di Milano stacca dividendi d tutto rispetto, qualsiasi ipotesi di tassazione delle rendite finanziarie viene giudicata un abominio. Il marasma che si è scatenato, di recente, in commissione Finanze del Senato e, più in generale, la resistenza ad affrontare il tema della riforma fiscale sono davvero incredibili.
È evidente che la guerra in Ucraina ha creato le condizioni per un ulteriore peggioramento delle condizioni economiche delle fasce più deboli della popolazione e rischia di paralizzare il sistema produttivo. Serve quindi una vera politica di difesa dei redditi più in difficoltà che dovrà passare da maggior debito, ma anche da una “solidarietà” fiscale, dalla necessità, in altre parole, che soprattutto le rendite più alte diano un contributo alla tenuta sociale del Paese. Pensare che dopo una pandemia, peraltro ancora in essere, e durante una guerra si possa pensare di non modificare neppure una virgola del sistema fiscale vuol dire non solo vivere nell’Iperuranio ma ridurre l’attività dello Stato soltanto a quella di osservatore che eroga spese finanziate con debito europeo. In realtà proprio per continuare a fare debito, italiano ed europeo, serve una riforma fiscale che colpisca le rendite e non i redditi.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
© riproduzione riservata