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Imbecilli della Rete, Eco riapre il dibattito

Il semiologo piemontese ha contribuito a sollevare nuovamente il problema della qualità del dibattito sul web e sui social network, viziato da quelli che ha definito in parte "imbecilli". La sua riflessione va però completata guardando al "perché" della tolleranza nei confronti di questi naviganti (utenti): un perché economico, che porta fino in Irlanda, Paese a fiscalità agevolata. Il commento dell’autore del nostro libro "Trolls Inc." 

“È giusto che la rete permetta di esprimersi anche a chi non dice cose sensate, però l’eccesso di sciocchezze intasa le linee”. Così Umberto Eco ha avuto modo di precisare su l’Espresso la riflessione che aveva rivolto agli “imbecilli” che popolano le praterie dei social network.
L’importante denuncia del semiologo piemontese si completa concentrandosi sul “perché” quelle piattaforme –Facebook, Twitter, ma non solo, più in generale i protagonisti del modello economico della Rete- non possono fare a meno degli “imbecilli”, anche quando questi depongono l’arma della sciocchezza e imbracciano quella della diffamazione. Un perché tutto economico: l’utenza produce traffico, il traffico garantisce l’ossigeno che la Rete-mercato necessita, e cioè i ricavi pubblicitari. Gli “imbecilli” sono il dito, la luna -come si vedrà- è altrove, più verso l’Irlanda, Paese a fiscalità agevolata.
 
Sul punto è stata accolta tiepidamente l’interessante sentenza della Cassazione (24431/15) di fine aprile 2015, depositata all’inizio del mese di giugno, che ha stabilito che la diffamazione “a mezzo Facebook” debba considerarsi “aggravata dal mezzo della pubblicità” e che la competenza spetti al Tribunale di Roma e non al giudice di pace penale (che è competente per la diffamazione semplice).
 
Vien da chiedersi se -finalmente- il riconoscimento operato da parte della Cassazione (Facebook quale “mezzo di pubblicità” per la diffusione dell’offesa) possa quindi far nascere una responsabilità in capo allo stesso social network -come fosse un editore, o comunque un portale con fini commerciali “incapace” di evitare che un’offesa riesca a circolare e allargare il proprio bacino di destinatari-. 
C’è da dubitarne, purtroppo, visto che la stessa Suprema Corte italiana ha stabilito, nel novembre 2011, “che il periodico online non possa considerarsi stampa”. Con regole (e responsabilità) annesse.
Un buon esempio però è giunto (di nuovo) dall’Estonia, dove la Corte Suprema ha considerato un portale di news con finalità commerciali (si chiama Delfi) responsabile per diffamazione per alcuni commenti non moderati a dovere e dal contenuto distante da ogni regola. Questo principio di democrazia e di civiltà -rispondi per quel che veicoli- ha retto per ben due volte davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’ultima con sentenza depositata il 16 giugno 2015 (ricorso 64569/09).
 
Che i social network abbiano “costruito” questa “sconfinata prateria” (mutuando la definizione del giudice milanese del caso “Google-Vividown”, Oscar Magi) non significa che debba esistere naturaliter. Certo, il fatto che le regole del gioco dipendano, per i provider, da un decreto legislativo del 2003 (numero 70) depone a favore dei gattopardi digitali. Ma un intervento responsabilizzante -ciò cui in fondo punta Umberto Eco, senza morali o dogmi- imporrebbe quanto meno una revisione e, nel migliore dei casi, una crescita culturale del dibattito in Rete.
 
Si diceva della luna. Se gli “imbecilli” hanno carta bianca -si provi a immaginare in termini di conto economico per i soggetti multinazionali della Rete cosa vorrebbe dire dover moderare i propri utenti-, coloro che traggono profitti dalle loro più o meno colorite (o diffamatorie) riflessioni coltivano da tempo un rapporto privilegiato con l’Irlanda. Tutto legittimo, come si sa, ma ancora tutto consentito nonostante gli appelli all’equità e alla giustizia sociale. Il caso più recente è quello di Twitter (il presidente del Consiglio Matteo Renzi andò a visitare la sede nella Silicon Valley lo scorso settembre): ha aperto la sede in Italia a metà 2014 (e prima come funzionava?, mistero), conta 10 dipendenti (a proposito di riscossa digitale dell’occupazione), 10mila euro di capitale, ha come oggetto sociale “marketing” e “supporto alle vendite relative ai prodotti pubblicitari online” e lo scorso anno ha versato imposte per 49mila euro e rotti. Il metodo è il solito: “La voce ‘Ricavi vendite e prestazioni’ si riferisce alle commissioni maturate nell’esercizio, per l’attività di marketing prestata nei confronti della Twitter International Company”. Che sta a Dublino. La filiale italiana agisce come procacciatore di affari che oltrepassano il confine, tornando in patria sotto la forma di (minori) commissioni.

 
(dalla nota integrativa di Twitter Italia Srl)
 
O si interviene su regole e fiscalità -chi si ricorda più la “web-tax”?- oppure gli “imbecilli” avranno vita lunga. Come i ricavi di questi colossi della Rete.

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