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Il vocabolario dell’economia solidale nelle mani sbagliate

La “transizione ecologica” è l’ultima mano di verde di un sistema distruttivo. Il capitalismo continua a ingannare se stesso, dice Francesco Gesualdi. Nel conformismo imperante è fondamentale il ruolo del giornalismo indipendente e di chi lo sostiene. L’editoriale del direttore, Duccio Facchini

Tratto da Altreconomia 235 — Marzo 2021
Il nuovo governo guidato da Mario Draghi ha giurato il 13 febbraio 2021 © Chine Nouvelle/Sipa/ pa/Fotogramma

Beni comuni, resilienza, sostenibilità. Adesso transizione ecologica. Quanto è stato saccheggiato il (presunto) vocabolario dei movimenti e delle realtà dell’economia solidale in questi anni e con quali risultati miseri. Chi aveva e ha in testa una società equa, giusta, fondata su valori radicalmente alternativi a quelli del capitalismo distruttivo è stato prima deriso e poi continuamente derubato con una pacca sulla spalla. Non che le idee non si possano cambiare o copiare nel corso del tempo, anzi, ma fino ad oggi si è visto solo marketing e nessuna pratica coerente.

È successo anche con il nuovo governo presieduto da Mario Draghi -l’amministratore delegato, come lo chiama giustamente Roberto Mancini nelle “idee eretiche” che chiudono questo numero-. Pensiamo alla fiaba della “transizione ecologica”: a guidare quello che si è rivelato poi essere l’ex ministero dell’Ambiente (mantenuti il ministero dello Sviluppo economico, il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali) è finito Roberto Cingolani, già direttore dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT) di Genova, convinto che il gas “in questo momento” sia “uno dei mali minori: nel medio e lungo termine la risorsa più sostenibile”. Lo ha scritto non a caso sul sito di Eni, come ha ricordato Gianluca Ruggieri, mentre il mondo, per fortuna, “va da un’altra parte”. E dovrebbe andarci anche l’Italia: “La Strategia nazionale di lungo periodo che il neoministro in qualche modo dovrebbe contribuire ad attuare -ha scritto Ruggieri- prevede di arrivare al 2050 a un sistema energetico interamente basato sulle rinnovabili, con il gas naturale relegato a un ruolo assolutamente marginale”. Basta saperlo.

All’Innovazione tecnologica e alla Transizione digitale è andato Vittorio Colao, già capo esecutivo di Vodafone dal 2008 al 2018. Tre anni fa, quando ha lasciato la multinazionale, uscì il report fiscale “Bad Connection” a cura del gruppo Shareholders for Change. Venne fuori in sostanza che la quota maggiore dei profitti del colosso (quasi il 40%) era concentrata in due giurisdizioni “agevolate” -Lussemburgo e Malta- dove il gruppo contava 325 dipendenti su un totale di 108.271 in tutto il mondo. Formalmente nulla di illecito, sono le assurde regole del gioco, di fatto una pratica molto aggressiva (e poco “innovativa”).

Si potrebbe continuare. Ha ragione Francesco Gesualdi, allievo di don Lorenzo Milani e fondatore del Centro nuovo modello di sviluppo (e co-fondatore di questa rivista, oltre vent’anni fa) quando a metà febbraio di quest’anno sul nostro sito ha sottolineato a proposito della fiaba della transizione come “dopo aver messo il Pianeta a ferro e a fuoco, ora il sistema capisce di dover fare qualcosa, ma lo fa con lo stesso istinto che ha provocato il disastro e non fa che ingannare se stesso […]. Se facciamo un’analisi seria del come siamo arrivati a tanto degrado, scopriamo che parte della colpa è di una mentalità che considerando la natura un bene senza valore, l’ha trattata come un magazzino da saccheggiare e una pattumiera da riempire. Ma l’altro pezzo di colpa sta nei miti posti a fondamento della concezione capitalistica: il mito della ricchezza, della mercificazione, dell’accumulo, dell’onnipotenza”.
Si ha proprio questa sensazione nel nostro Paese, prima e dopo la pubblicazione della lista dei ministri (e delle poche ministre).

Deprime e quasi preoccupa il fatto che all’opposizione dei “migliori” in Parlamento si sia accomodata la destra alla Orbán, pronta all’incasso, e qualche sparuto battitore libero. In questo scenario di conformismo largo è ancora più importante il ruolo del giornalismo indipendente e di chi lo sostiene: per continuare a raccontare storie, dall’Italia ma soprattutto dal mondo, offrire punti di vista e iniziative fuori dal coro, condividere strumenti per agire e per cambiare le cose. La transizione, vera, la si fa insieme, senza ingannare se stessi, credere nel mito o fotocopiare il vocabolario.

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