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Il vero pane toscano
Non solo capannoni: a Prato il progetto di filiera "Gran Prato", che coinvolge nove aziende agricole, nove forni e un molino. Tutto nel raggio di 40 chilometri, tra la città e la valle del fiume Bisenzio. Da un’idea dell’Associazione Parco Agricolo di Prato, in collaborazione con Coldiretti, Cia, Confartigianato, associazione Terra Rata e Provincia di Prato e Comune di Montemurlo —
Acqua, farina e pasta madre: la ricetta del “Gran Prato” non prevede l’uso del sale. Chi affetta la “bozza pratese” da un chilo scopre così il sapore del pane toscano. Di un vero pane toscano, l’anello finale di una filiera agricola e artigianale chiusa in un diametro di 40 chilometri con al centro la città di Prato: coinvolge 9 aziende agricole, nove forni, un molino, un pastificio artigianale e un pasticcere, e nel 2013 ha mosso circa 33 tonnellate di grano.
“Abbiamo iniziato a elaborare il progetto nel luglio del 2011 -racconta David Fanfani, ricercatore in Tecnica e pianificazione urbanistica all’Università di Firenze e presidente dell’Associazione Parco Agricolo di Prato-, consapevoli che un parco agricolo in un contesto periurbano abbia un senso solo se riesce a coinvolgere coloro che lavorano nell’agricoltura, che nel nostro caso significa, in particolare, valorizzare la cerealicoltura”. Il parco, per il momento, esiste solo sulla carta, anche se tutt’intorno a Prato ci sono circa 3mila ettari di terreni agricoli dedicati ai seminativi, trecento dei quali inseriti nella filiera “Gran Prato”.
“All’inizio del 2012 abbiamo avviato un confronto coinvolgendo i panificatori, due molini e alcuni agricoltori. Insieme, abbiamo definito ‘accordi di filiera’, disciplinari che impegnano i produttori a migliorare la ‘qualità’ del loro lavoro, riducendone l’impatto ambientale, e i panificatori a continuare a lavorare in modo artigiano -spiega Fanfani-. Se avessimo optato per un pane ‘biologico’ probabilmente non saremmo mai partiti”, aggiunge Fanfani, che sa di dover fare i conti con la realtà. Quella, ad esempio, dell’azienda agricola di Paolo Colzi (www.colzipaolo.it), che è figlio di contadini e nipote di mezzadri ma non ha terreni di proprietà.
La casa della sua famiglia -pochi chilometri a Sud della città- è circondata dai capannoni del 1° Macrolotto industriale di Prato, e questo fa sì che “per l’attesa edificatoria, i proprietari non vogliono ‘legarsi’ a un contadino con contratti troppo lunghi” racconta Paolo Colzi. Ha a disposizione 60 ettari, spiega, con contratti d’affitto o di comodato gratuito che vanno da uno a tre anni. Un tempo nemmeno sufficiente ad avviare una conversione e ad ottenere la certificazione biologica, per cui sono necessari 3 anni (il contratto d’affitto agrario tradizionale avrebbe, non a caso, una durata di 15 anni).
“Il ‘disciplinare’ impone una riduzione dei concimi azotati, e di non abusare nell’uso di prodotti chimici -spiega Colzi-: non siamo riusciti ad eliminare i diserbanti, perché non c’è più un equilibrio nei terreni”. Colzi, però, sta avviando una rotazione triennale delle colture, per andare a migliorare la struttura dei terreni. “Farò il sovescio”, racconta: seminerà, cioè, sui terreni incolti alcune graminacee e leguminose, che poi verranno tagliate e incorporate al suolo. Anche se il “Gran Prato” è grano convenzionale -delle varietà Roma, Pandas, Blasco, Azzorre-, l’Associazione Parco agricolo ha messo i produttori del territorio in relazione con il professor Stefano Benedettelli, del Dipartimento di Scienze delle produzioni agroalimentari e dell’ambiente dell’Università di Firenze, grande esperto di recupero e valorizzazione dei grani antichi: sta seguendo e accompagnando i processi di miglioramento colturale.
Paolo Colzi oggi coltiva una ventina di ettari, dei 60 che ha a disposizione. Tre sono dedicati agli ortaggi. “Ho iniziato a diversificare nel 2009, quando la speculazione globale ha affossato i prezzi dei cereali. Allora lavoravo da solo, oggi ci sono due persone che mi aiutano a tempo pieno” racconta.
Grazie alla filiera Gran Prato, oggi Paolo Colzi vende il suo grano a 38 euro al quintale, quando il prezzo di mercato del grano tenero è di 18 euro. Nonostante questo, il pane marchiato Gran Prato viene venduto al dettaglio a 3 euro al chilo, un prezzo competitivo: “Non volevamo realizzare un prodotto di nicchia, perché il nostro obiettivo è ‘muovere gli ettari’, rendere conveniente l’agricoltura” spiega David Fanfani, dell’Associazione Parco agricolo di Prato.
Nei campi che coltiva Paolo Colzi ha messo dei cartelli, con il logo del Gran Prato: “Serve ad incuriosire, e risponde alle domande dei tanti che ancora ci chiedono ‘Ma a Prato ci sono i campi?’, perché vogliono vedere solo i capannoni”. Molte insegne tra quelle che vedo andando verso i campi sono scritte in cinese, e sono il simbolo di un modello produttivo insostenibile applicato al settore tessile. “Tutto questo è parte di una cura del territorio di prossimità, in un rapporto co-evolutivo tra città e campagna -analizza David Fanfani-: per questo quando siamo partiti abbiamo ritenuto fondamentale definire un ‘prezzo giusto’, a cominciare da quello riconosciuto ai produttori: una ricercatrice in Economia ed estimo agrario dell’Università di Firenze, Ginevra Lombardi, ha svolto una ricerca visitando le aziende agricole coinvolte, e analizzando i costi degli input, quelli del lavoro e l’ammortamento degli investimenti”.
Tra i costi c’è anche la manutenzione del silos refrigerato che viene utilizzato per stoccare il “Gran(o di) Prato”, ospitato presso l’azienda agricola di Marcello Boretti. A lui -che conduce circa 310 ettari, tutti in affitto o in comodato, nell’area del 2° Macrolotto-, l’accordo di filiera riconosce 2 euro per ogni quintale di grano stoccato.
Apre la finestrella di un silos: conteneva circa 2mila quintali di grano, ma ormai è quasi vuoto. Da Prato, carichi di 100-120 quintali di grano hanno preso la strada per Vaiano, quella che supera l’Appennino e scendo a Bologna. Qui lungo il fiume Bisenzio c’è il molino Bardazzi, un molino-torre con una vecchia macina a pietra e un laminatoio, cioè un molino a cilindri, degli anni Trenta. L’impianto ha resistito anche all’oltraggio dei tedeschi in ritirata, che alla fine della Seconda guerra mondiale minarono il molino.
“Al momento -spiega Marcello Boretti- tra i produttori della filiera i conferitori sono sei, e quanto incassiamo vendendo il grano al molino lo ripartiamo in parti uguali, senza guardare a chi ha dato più materia prima. Solo quando uno termina il proprio ‘monte grano’, s’inizia a dividere tra cinque, quattro, tre…”.
Marco Bardazzi, il mugnaio, è anche il presidente dell’Associazione Gran Prato, cui hanno dato vita le 21 aziende legate al progetto di filiera e di cui fanno parte -riunite in un Comitato dei garanti- le realtà non commerciali che hanno partecipato alla costruzione della filiera: oltre all’Associazione Parco agricolo di Prato, sono Coldiretti, Cia, Confartigianato, associazione Terra Rata, la Provincia di Prato e il Comune di Montemurlo (PO).
Bardazzi è il depositario dei “bollini” che dal primo marzo 2014 accompagnano ogni “bozza” pratese panificata utilizzando farina “Gran Prato”: “Li distribuisco in base al reale consumo dei forni, alla farina che acquistano qui al molino. È una forma di garanzia per il consumatore”, perché fare due conti è facile: considerando una resa media del 75%, 33 tonnellate di grano (quelle di “Gran Prato” acquistate dal 1 gennaio al 31 dicembre 2013 dal molino Bardazzi) diventano 25.200 chilogrammi di farina. Per fare un chilo di pane, invece, servono 700 grammi di farina. Lo scorso anno, cioè, la filiera “Gran Prato” avrebbe potuto produrre fino a 36mila chilogrammi di pane, “anche se in parte la farina viene venduta sfusa, per andare incontro alle esigenze di tutti coloro che sono tornati a preferire la panificazione casalinga”. Il molino vende la farina ai forni a 70 centesimi di euro al chilo (più il 4% di IVA), per un totale -nel 2013- di circa 18mila euro.
“La prima ‘bozza’ l’abbiamo venduta l’8 settembre 2012, che a Prato è un giorno di festa, dedicato alla ‘Madonna della Cintola’ -racconta David Fanfani, dell’Associazione Parco agricolo di Prato-: a quella prima fase sperimentale partecipavano cinque forni, e ognuno aveva l’obiettivo di vendere almeno 20 chili di pane al giorno”. Oggi il “Gran Prato” viene venduto quattro volte al mese al mercato Terra di Prato e in altri quattro mercati contadini, e i forni coinvolti sono nove.
I primi tre -racconta Bardazzi- nel 2013 hanno acquistato tra i 45 e i 50 quintali di farina l’uno. Quello che scelgo per sentire il profumo della “bozza di Prato” è della famiglia Fogacci.
Enrico, che lo gestisce con i fratelli, usa la farina “Gran Prato” anche per l’impasto che allunga di fronte ai miei occhi in cilindri di oltre 50 centrimetri: diventano (buonissime) fette biscottate.
“Ho partecipato al progetto dall’inizio, e fin dai primi tavoli di lavoro sono stato fermo su un’idea -spiega-: che questo processo venisse realizzato con una filosofia simile a quella del commercio equo e solidale, mettendo al centro i contadini nella formazione di un prezzo equo”.
Fogacci, che legge Ae e cita Giorgio La Pira, è convinto che la chiave di tutto sia la trasparenza, “l’onestà, perché nessuno viene a controllare”. Fogacci ha aperto ad Ae le porte del suo forno a legna, un impianto del ‘31, gestito dalla sua famiglia da oltre 40 anni. Prima di uscire, infila in un sacchetto di carta una “bozza” da un chilo: “Portala a Milano. È la mia espressione di un innamoramento per il territorio”. —