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Il traffico di armi continua ad alimentare il conflitto in Sudan. Nonostante l’embargo
Armi e munizioni di recente fabbricazione prodotte in Cina, Russia, Serbia, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Yemen vengono importate in grandi quantità in Sudan e poi, in alcuni casi, deviate verso il Darfur. La ricerca di Amnesty international dimostra come il divieto all’export in vigore dal 2003 in Darfur non sia stato affatto in grado di proteggere la popolazione civile
Secondo Amnesty international l’embargo imposto dalle Nazioni Unite già nel 2003 sul trasferimento di armi nel Darfur, dove da aprile 2023 è in atto un sanguinoso conflitto tra le Forze armate sudanesi (Sad, l’esercito regolare del Paese) e le Forze di supporto rapido (Rsf, un gruppo paramilitare), non sarebbe sufficiente a fermare i rifornimenti di equipaggiamenti militari provenienti da Paesi esteri e destinati alle forze in conflitto, fallendo di fatto nell’intento di proteggere la popolazione civile.
In particolare armi e munizioni di recente fabbricazione prodotte in Stati quali Cina, Russia, Serbia, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Yemen vengono importate in grandi quantità in Sudan e poi, in alcuni casi, deviate verso il Darfur, aggirando così l’embargo e finendo per alimentare un conflitto che sta avendo gravi conseguenze sulla popolazione civile e producendo milioni di sfollati.
“Il costante flusso di armi in Sudan continua a causare morte e sofferenze tra i civili su vasta scala –ha dichiarato il 25 luglio 2024 Deprose Muchena, direttore della divisione impatto sui diritti umani in Africa di Amnesty international-. La nostra ricerca dimostra che le armi che entrano in Sudan sono finite nelle mani di gruppi armati accusati di violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale. Abbiamo tracciato metodicamente una serie di equipaggiamenti letali -tra cui pistole, fucili e carabine- che vengono utilizzate da tutte le parti in conflitto”.
Secondo l’organizzazione è necessario allargare l’embargo imposto dalle Nazioni Unite in modo che copra non solamente il Darfur ma tutto il Sudan (qui è possibile sottoscrivere la petizione). “È evidente che il vigente embargo, applicabile ad oggi solo al Darfur, è completamente inadeguato e che deve essere esteso a tutto il Paese. Questa è una crisi umanitaria che non può essere ignorata. Con la minaccia incombente di una carestia che pende sul Darfur, il mondo non può continuare a ignorare la situazione della popolazione civile sudanese”, ha aggiunto Muchena.
Il conflitto in Darfur tra le Fas e le Rsf è iniziato nell’aprile del 2023. Inizialmente circoscritto alla capitale sudanese, Khartoum, si è rapidamente diffuso in altre aree del Paese, tra cui appunto il Darfur, il Nord Kordofan e successivamente allo Stato di Gezira. Dall’inizio del conflitto si sono registrate più 16.600 uccisioni tra la popolazione civile e oltre 7,9 milioni di sfollati interni. Inoltre, oltre 2,1 milioni di persone sono state costrette a fuggire nei Paesi vicini come in Repubblica Centrafricana, Ciad, Egitto, Etiopia e Sud Sudan, dove vivono in condizioni che Amnesty international definisce come “disastrose”.
Per scoprire chi rifornisce il conflitto, Amnesty ha analizzato più di 1.900 documenti di spedizione provenienti da due diversi fornitori e ha esaminato fonti e prove digitali, tra cui circa duemila foto e video, che mostrano armi di nuova fabbricazione o di recente importazione in Sudan. Il materiale esaminato include filmati pubblicati dalle Forze armate sudanesi o dalle Forze di supporto rapido, nonché contenuti di soggetti “non affiliati”. L’organizzazione, tra febbraio e marzo del 2024, ha anche intervistato 17 esperti per validare l’analisi dei dati e ottenere ulteriori informazioni sulle linee di rifornimento utilizzate dai vari gruppi armati. Mentre, per motivi di sicurezza, non è stato possibile eseguire indagini sul campo.
I risultati dell’indagine mostrano chiaramente come le forze in conflitto (sia l’esercito regolare sia i ribelli) siano riuscite a ottenere equipaggiamento, armi e munizioni prodotte e commercializzate dopo l’entrata in vigore dell’embargo. E che non sarebbero dovute riuscire a ottenere. Ad esempio, le Rsf utilizzano blindati e altri mezzi prodotti dagli Emirati Arabi Uniti. Mentre sono state individuate, tramite prove fotografiche, diverse armi leggere di fabbricazione cinese, oltre che disturbatori di droni e proiettili di mortaio importati dalla Cina. Dall’analisi è emerso come in molti casi questi equipaggiamenti, normalmente venduti sul mercato civile, vengono invece dirottati verso le forze governative e i gruppi ribelli. In particolare aziende turche e russe (come Molotov e Kalashnikov concern) hanno esportato varianti civili di questi armamenti che poi, secondo quanto scoperto da Amnesty international, sono state utilizzate da tutte le parti in conflitto.
Armi come i fucili di precisione Tigr o i fucili Saiga-Mk -fabbricati dalla russa Kalashnikov concern, azienda controllata dal Cremlino- sono normalmente commercializzate per “uso civile”, ma sono state vendute a commercianti di armi che hanno legami stretti con le Forze armate sudanesi. Le Sad inoltre sono rifornite di fucili, pistole e carabine anche dall’azienda Sarsilmaz, la principale industria bellica della Turchia.
Un’altra fonte approvvigionamento proviene dal mercato delle armi e delle munizioni “a salve” che possono essere modificate e trasformate in vere e propri strumenti letali. Numerosi documenti di spedizione indicano che, dal 2020 al 2023, quasi 240mila pistole a salve sono state esportate in Sudan da aziende turche, insieme a 26 milioni di munizioni dello stesso tipo. “La possibilità che, una volta in Sudan, le armi e le munizioni a salve possano essere trasformate in strumenti letali ci ricorda quanto sia necessaria una maggiore attenzione su questo tipo di commercio, in gran parte non regolamentato”, ribadisce Amnesty international.
Per limitare il trasferimento di armamenti in una zona dove sono in atto gravi violazioni dei diritti umani la Ong chiede al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di espandere l’embargo, in vigore in Darfur dal 2003, a tutto il Paese. Inoltre, tutti gli Stati e le aziende dovrebbero cessare immediatamente le forniture di armi e munizioni al Sudan. Ciò include la fornitura diretta o indiretta, la vendita o il trasferimento di materiale militare, comprese le relative tecnologie, parti e componenti, assistenza tecnica, formazione, assistenza finanziaria o di altro tipo. Gli Stati dovrebbero anche proibire esplicitamente il trasferimento al Sudan di armi da fuoco commercializzate per i civili -come fucili da caccia- che la Ong ha ripetutamente documentato essere nelle mani delle parti in conflitto.
Gli Stati parte del Trattato sul commercio di armi che includono la Serbia (dal dicembre 2014) e la Cina (dall’ottobre 2020), hanno inoltre l’obbligo legale di non autorizzare alcun trasferimento di armi convenzionali se sono a conoscenza del fatto che queste sarebbero utilizzati per commettere di crimini contro l’umanità o di guerra. Gli Stati aderenti al Trattato devono inoltre condurre una valutazione obiettiva e non discriminatoria di tutte le esportazioni di armi convenzionali e negare l’autorizzazione all’esportazione se esiste un rischio sostanziale che queste possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione dei diritti umani.
“Data la grave e continua minaccia ai diritti umani, gli stati e le aziende devono cessare immediatamente le forniture di tutte le armi e munizioni al Sudan, compresa la fornitura diretta o indiretta, la vendita o il trasferimento di armi e materiali militari, inclusi strumenti tecnici e parti e componenti correlate, così come formazione e assistenza tecnica, finanziaria o di altro tipo -ha concluso Muchena-. Gli Stati devono anche proibire esplicitamente il trasferimento in Sudan di armamenti da fuoco commercializzate per i civili, che Amnesty international ha ripetutamente documentato essere finite nelle mani delle parti in conflitto”.
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