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Il software condiviso
Una legge del 2005 spinge gli enti a sviluppare -e usare- programmi “open” e a metterli a disposizione. Dal riutilizzo risparmi fino a un miliardo —
La “spending review” non tocca i software della pubblica amministrazione, nonostante la legge per farlo ci sia già. Dal 2005, infatti, il Codice di amministrazione digitale vincola le amministrazione ad utilizzare in prima battuta solo software open source. Eppure, ancora nel 2012, la spesa per acquisire licenze e software “su misura” era di quasi un milioni di euro al giorno. Se consideriamo anche l’assistenza e la manutenzione informatica, il costo -secondo il Sistema informativo delle operazioni degli enti pubblici- raggiunge il miliardo di euro. Si tratta di una voce di spesa esorbitante: la sola cifra per acquisto di licenze e software (circa 330 milioni di euro) supera del 10% ciò che lo Stato trasferisce a Regioni e Comuni per l’assistenza ai non autosufficienti, alle lotta alla povertà, e alla cura dei minori (il cosiddetto Fondo nazionale politiche sociali, che nel 2014 non raggiunge i 300 milioni di euro).
Per questo è rilevante che il costo possa essere fortemente ridotto, se non in alcuni casi proprio annullato, applicando la legge. Quella del 2005 spiega che gli enti pubblici possono investire nella realizzazione di programmi digitali “su misura” solo quando quelli open sono indisponibili o inadeguati: in questo caso, però, gli enti sono obbligati a mettere a disposizione gratuita di tutti i programmi che realizzano (o che fanno realizzare ad aziende esterne) facendo in modo che tali programmi siano facilmente esportabili su altre piattaforme, e corredati di tutta la documentazione necessaria a personalizzarli.
Così, ad esempio, un comune che decide di digitalizzare il proprio sistema di protocollo può assegnare l’incarico a un’azienda di sua fiducia, investendo diverse migliaia di euro, ma dovrà fare in modo che il suo software sia disponibile senza costi per altri enti pubblici. Potrebbe ottenere lo stesso risultato anche a costo zero, utilizzando il software prodotto da un’altra amministrazione, personalizzandolo sulle proprie esigenze. Per facilitare l’incontro tra domanda e offerta l’Agenzia per l’Italia digitale (AGID, www.agid.gov.it), ha istituito il Catalogo nazionale dei programmi riutilizzabili, su cui si possono trovare programmi decisamente eterogenei: dalla cartella clinica elettronica per ospedali al software per valutare i servizi della pubblica amministrazione attraverso gli emoticon (le “faccine”); dal programma per censire l’edilizia scolastica al sistema informativo per i rifiuti urbani, per monitorare l’andamento della raccolta differenziata.
I vantaggi dell’accesso a questo strumento sono evidenti. Prendiamo ad esempio il caso del sistema per la gestione della telefonia via web messo a disposizione dall’Università di Ferrara, che ha sviluppato un sistema efficiente per gestire chiamate, conferenze telefoniche multi-utenti, segreteria, trasferimenti di chiamata, pianificazione di appuntamenti, fax e molte altre funzioni di telefonia evolute. Il sistema è costato parecchio all’Università, 120mila euro, ma -dai suoi rendiconti- la sua introduzione ha consentito, tra bollette e manutenzioni, un risparmio annuo di 383mila euro rispetto ai centralini telefonici tradizionali che erano in dotazione. Oggi questo software è stato acquisito (gratis) solo da 2 enti che lo stanno già usando, mentre altri 8 lo stanno valutando.
Il vero paradosso, però, è che il Catalogo nazionale del riuso non viene usato. Secondo i dati ISTAT diffusi dall’Osservatorio eGovernment del Politecnico di Milano le amministrazioni cosiddette cedenti (cioè quelle che mettono a disposizione i software che producono o acquistano) nel 2012 sono state meno del 2%, mentre quelle riusanti (cioè quelle che nello stesso anno hanno utilizzato i software dei cedenti) sono state il 35%.
Le ragioni di questa diffidenza sono tante, e alcune fondate. Per le amministrazioni cedenti le procedure sono complicate: servono delibere di giunta e protocolli di intesa con i “riusanti”, e la stessa scheda di segnalazione del software alla banca dati centrale è complessa e macchinosa. L’ente cedente inoltre si trova costretto a produrre documenti e manuali ad hoc, nonché a fornire formazione e assistenza ai riusanti: sono tutti compiti che generano carichi di lavoro aggiuntivi ma non sono remunerati.
Anche la situazione dei riusanti non è semplice: l’iscrizione dei software alla banca dati è volontaria e quindi si trova un’offerta quantitativamente modesta (dal 2010 ad oggi sono stati inserti meno di 60 programmi). È inoltre difficile capire se il software che si cerca è disponibile tra quello proposto, e ancor più difficile è valutarne la qualità: per la maggior parte dei programmi non è possibile sapere se sia già stato richiesto da altri, e che valutazione questi ne abbiano dato: il principale facilitatore del riuso, secondo l’Osservatorio eGovernment, è il rudimentale passaparola tra enti. Un limite serio alla diffusione del riuso, del resto, è proprio la volontarietà: gli enti sono obbligati a mettere il software a disposizione, ma non c’è sanzione per chi non lo fa, così come non c’è premio per i dirigenti, cedenti o riusanti, che con il loro impegno generano economie per la pubblica amministrazione.
Non accade quasi mai, ad esempio, che il riuso entri tra gli indicatori che concorrono a definire i premi di produzione dei funzionari pubblici.
Eppure, accanto al risparmio economico il riuso del software consente spesso alle amministrazioni pubbliche di migliorare efficacia ed efficienza del loro lavoro: tra cedenti e riutilizzatori si creano dei veri e propri gruppi di miglioramento, in cui vengono scambiate le migliorie apportate ai programmi ma anche le modalità di lavoro più efficaci che il nuovo software consente. Così, ad esempio, gli enti che hanno messo in comune il sistema unico di anagrafe dei cittadini -progetti in tal senso sono in corso a Padova e a Milano- hanno potuto migliorare il programma che tutti usano, ma anche confrontarsi su quali banche dati collegare all’anagrafe (ad esempio, quelle relative alla tassa sui rifiuti, alle multe automobilistiche o agli utenti dei servizi sociali, …) suggerendosi a vicenda anche i servizi che il software consente di offrire ai cittadini.
Non solo. Oggi poche grandi aziende –Zucchetti, ADS (Gruppo Finmatica) e STR (Gruppo 24 ORE) si dividono una buona parte del florido mercato del software per la pubblica amministrazione. La diffusione del riuso consentirebbe invece a piccoli fornitori locali di entrare in questo mercato, offrendo servizi flessibili e veloci di installazione, personalizzazione e manutenzione dei programmi. Sono tutte funzioni che trovano una migliore applicazione nella dimensione territoriale, come dimostra l’esempio di Changelab, una cooperativa costituita da un gruppo di giovani –dai 28 ai 35 anni- laureati al Politecnico di Milano. Da studenti hanno osservato il problema, partecipando alle ricerche dell’Osservatorio eGovernment del Politecnico di Milano, e da professionisti hanno deciso di provare a risolverlo, facendosi ponte tra amministrazioni cedenti e riusanti. La loro prima azione è stata affiancarsi (gratuitamente) alle amministrazioni cedenti per gestire l’iter di messa a disposizione dei programmi: dalla compilazione della faticosa modulistica alla pubblicizzazione del prodotto presso enti potenzialmente interessati, contribuendo così alla diffusione dei riuso.
La loro attività professionale vera e propria, però, la svolgono presso le amministrazioni che scelgono di riusare software di altri enti. Changelab (www.changelab.eu) in questo caso cerca la soluzione informatica più adatta, analizza le criticità e migliora i prodotti, li personalizza adattandoli al committente, e lo segue anche nelle fasi di installazione, formazione del personale e nella preparazione dei tecnici locali che possano continuare a manutenere il programma senza alcun ulteriore intervento della cooperativa.
Oggi Changelab ha 5 soci e 4 collaboratori esterni, un socio sovventore (un professionista che ha creduto nel loro progetto) e un fatturato ancora modesto: nel 2013 ha sfiorato i 100mila euro, ma il trend è di crescita costante e commesse di lavoro che vengono da tutta Italia. I loro clienti spaziano da Modica (RG) a Vigevano (PV), da Adria (RO) a Mazara del Vallo (TP). Come molte giovani imprese, hanno sede nell’Hub del Politecnico di Milano, che però ospita poche cooperative. Il sogno nel cassetto di Changelab, però, è da vera coop: poter integrare nella base sociale i professionisti informatici ma anche gli utenti, cioè i dirigenti delle pubbliche amministrazioni cedenti e riusanti, per coinvolgerli nel lavoro di sensibilizzazione ed ampliare il pubblico dei fruitori. —