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Finanza / Opinioni

Il senso di Donald Trump (e della Cina) per le criptovalute

© Daniel Dan - Unsplash

Il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti ha espresso pubblicamente il suo favore per Bitcoin e cripto, annunciando la costituzione di una riserva strategica ad hoc e un consiglio di presidenza. Un radicale cambio di posizione che tocca le relazioni con i grandi fondi e la dipendenza di Pechino dal dollaro nelle transazioni internazionali. L’analisi di Alessandro Volpi

Lo scontro interno al capitalismo finanziario statunitense è sempre più evidente. Donald Trump alla conferenza di Nashville di luglio ha dichiarato il suo favore per Bitcoin e criptovalute, annunciando la costituzione di una riserva strategica ad hoc e un consiglio di presidenza sul tema. Ha sostenuto, cambiando le sue antiche posizioni, che le criptovalute possono rappresentare una risorsa per l’economia americana, in grado di tutelare lo stesso dollaro da rischi di progressivo abbandono internazionale.

Trump non ama la politica degli alti tassi della Federal Reserve (Fed) che generano un dollaro troppo forte per le esportazioni di imprese americane, oberate proprio dal costo del credito, e che rischiano di limitare la diffusione del biglietto verde perché eccessivamente oneroso per i suoi utilizzatori, specie se Paesi emergenti. 

In quest’ottica Bitcoin e criptovalute diventano non solo un oggetto su cui costruire operazioni speculative magari guidate da fondi hedge vicini allo steso Trump, ma il mezzo per definire una nuova strumentazione monetaria “ideologicamente” più popolare e antistatuale che può mantenere la centralità monetaria statunitense, spostandola sul piano digitale. In questo senso, Trump vuole “americanizzare” la cripto e, in coerenza con un simile atteggiamento, ha fatto sapere che non rimetterà in circolazione le criptovalute sequestrate dalle autorità federali, per quasi nove miliardi di dollari, per evitare scossoni ai circa 50 milioni di americani in possesso di criptovalute. Soprattutto ha dichiarato che sostituirà i vertici della Sec, l’autorità di vigilanza della Borsa, a partire da Gary Genser, da sempre ostili verso quel tipo di strumenti di pagamento. 

Una presa di posizione così netta può essere letta come l’ennesima polemica del capitalismo rampante contro le “Big Three” che usano i Bitcoin per creare Etf ma hanno sempre mostrato grande diffidenza nei confronti del panorama complessivo delle cripto perché queste ridurrebbero il monopolio della liquidità detenuto dalle stesse “Big Three” grazie al risparmio gestito. Moltiplicare gli strumenti di pagamento favorisce chi è fuori dal monopolio della liquidità e apre spazi liberi, anche in termini speculativi, al di fuori delle scelte di Vanguard, BlackRock, State Street e del loro braccio armato JPMorgan.

In tale prospettiva la presa di posizione a Nashville mira, di nuovo, a costruire un consenso verso il candidato repubblicano da parte di quella vasta parte di americani che non si riconoscono nel modello “democratico” dei grandi fondi, capaci di operare una riduzione dei rischi per la loro condizione di monopolio e quindi in grado di garantire a milioni di americani polizze sanitarie e previdenziali non sostenute dallo Stato. Le criptovalute sono un pezzo del paradigma libertario e dello spirito “competitivo” del capitalismo che Trump vuole declinare in salsa patriottica contro la Wall Street delle élite, secondo quanto sostenuto dal “suo” candidato vicepresidente James David Vance.

È probabile, alla luce di ciò, che oltre a Gary Genser, Trump, qualora vincesse, faccia fuori anche Jerome Powell (presidente della Fed) proprio per la sua politica di alti tassi, in questo momento alimentata attraverso un’enorme quantità di emissioni a breve termine, fatta per tenere i tassi a lungo termine alti senza deprezzare i titoli. La vittoria di Trump sarebbe un vero terremoto finanziario sul versante istituzionale che obbligherebbe “i padroni del mondo” a fare i conti con la politica, magari modificando la struttura di vertice del capitale finanziario; un “rimpasto” necessario per definire le tensioni con l’economia comunista cinese, in questo momento del tutto inconciliabile con l’assetto dem-Big Three. Forse il sovranismo trumpiano, sorretto da un capitalismo animale e da un populismo anti-elitario sarà meno irriducibile nei confronti di una divisione del mondo con la Cina, ponendo fine al globalismo americano.

Del resto, la Cina si sta preparando al cambiamento. Insieme all’autorità monetaria di Hong Kong, alla Banca centrale della Thailandia, alla Banca centrale degli Emirati Arabi Uniti, alla Banca centrale dell’Arabia Saudita, la Banca centrale cinese sta spingendo “mBridge”, una piattaforma su blockchain dove scambiare valute digitali e in particolare lo yuan digitale, per ridurre la dipendenza dal dollaro nelle transazioni internazionali. Si tratta di una soluzione che mette insieme grandi esportatori di petrolio con la principale esportatrice globale e che sta attraendo altre realtà produttive dei Paesi emergenti, nella prospettiva di togliere agli Stati Uniti la sua merce più preziosa e, dunque, a ridimensionarne radicalmente il ruolo mondiale. A oggi all’iniziativa collabora la Banca dei regolamenti internazionali con l’intento di evitare proprio “disaccoppiamenti” troppo marcati, ma si tratta di un controllo sempre più flebile.

In sintesi, la Cina si organizza per far valere fino in fondo la propria capacità produttiva, ormai la più grande del Pianeta. La campagna elettorale americana parla molto di Cina, ma Pechino senza dollaro sarebbe davvero uno scenario sconosciuto. E questo Trump, l’“anticinese”, pare averlo capito prima dei democratici, ancora convinti della supremazia degli Stati Uniti.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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