Esteri / Attualità
Il racconto dell’uomo in attesa
“The Waiting Man’s Tale” di Rachel Seiffert racconta un tratto ricorrente nelle vite degli immigrati nel Regno Unito: una volta liberati dalla detenzione amministrativa, la loro condizione di costante deportabilità, insieme alle restrizioni, creano uno stato di ansia e indigenza che diventa causa di sofferenza
Il progetto “Refugee Tales” nasce in Gran Bretagna nel 2015 per protestare contro gli abusi istituzionali operati dal sistema di detenzione amministrativa di immigrati, e in particolar modo contro la pratica della “indefinite detention”, cioè l’assenza di una durata ufficiale per queste forme di detenzione. Si tratta di un fenomeno che a quel tempo coinvolgeva 32.000 persone. A partire dal 2015, ogni anno le modalità della protesta consistono in varie camminate per luoghi pubblici significativi, incluso un trekking di nove giorni lungo la “Pilgrims’ Way” (“Cammino dei pellegrini”) che conduce a Canterbury, già ambientazione del poema di Geoffrey Chaucer I racconti di Canterbury (1387). I partecipanti si riappropriano, fisicamente ed eticamente, di questo percorso canonico per la Storia e la letteratura inglese, aprendo così nuovi spazi e nuova visibilità per chi subisce costanti restrizioni nella propria libertà di movimento. In ogni giornata, inoltre, il percorso viene arricchito di narrazioni. Questi racconti sono frutto di una collaborazione nella quale scrittori e scrittrici danno voce, dopo averli ascoltati, a immigrati o a persone coinvolte a vario titolo con la “immigration detention”.
L’iniziativa ha portato alla pubblicazione di quattro raccolte, tutte per i tipi della Comma Press, a cura di David Herd e Anna Pincus: “Refugee Tales I” (2016), “II” (2017), “III” (2019) e “IV” (2021). Tra gli autori di questi racconti segnaliamo Monica Ali, Chris Cleave, Inua Ellams, Bernardine Evaristo, Jackie Kay, Marina Lewycka, Ali Smith, nonché il Premio Nobel 2021 Abdulrazak Gurnah. L’ultimo volume allarga la prospettiva, includendo anche storie su detenzione di immigrati in altri paesi come Canada, Grecia e Svizzera; l’Italia è rappresentata da “The Teenager’s Tale” (“Il racconto dell’adolescente”) di Maurizio Veglio, avvocato specializzato in diritto dell’immigrazione e autore dei volumi L’attualità del male: La Libia dei lager è verità processuale (SEB 27, 2018) e La malapena: Sulla crisi della giustizia al tempo dei centri di trattenimento degli stranieri (SEB 27, 2020).
Anche il contributo qui tradotto, “The Waiting Man’s Tale” (“Il racconto dell’uomo in attesa”), è incluso in “Refugee Tales IV”. L’autrice Rachel Seiffert, bilingue, è nata nel 1971 a Oxford da genitori tedeschi e australiani. Ha pubblicato quattro romanzi: il primo è il pluripremiato “The Dark Room” (2001; “La camera oscura”, Frassinelli 2003, trad. di Giusi Barbiani, Anna Fanfani e Silvia Fornasiero), cui hanno fatto seguito “Afterwards” (2007), “The Walk Home” (2014) e “A Boy in Winter” (2017) e la raccolta di racconti Field Study (2004; Brevi distanze, Frassinelli 2006, trad. di S. Fornasiero).
La storia di “The Waiting Man’s Tale” mette in luce un tratto ricorrente nelle vite degli immigrati narrate in “Refugee Tales”: una volta liberati dalla detenzione amministrativa, la loro condizione di costante deportabilità, assieme alle restrizioni spaziali e lavorative imposte dalle politiche migratorie, creano uno stato di ansia e indigenza che inevitabilmente diventa causa di sofferenza psicologica, se non di traumi ulteriori. A questo Seiffert aggiunge gli ostacoli portati dal lockdown anti-Covid.
La traduzione è il risultato di un lavoro di gruppo seminariale per il corso di Letteratura Inglese magistrale presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne, Università di Torino, novembre-dicembre 2022. Desidero ringraziare, per la loro partecipazione al seminario, Francesca Ascrizzi, Nicole Bimbi, Gabriele Brindisi, Elide Carrozzo, Rosa Xue Jie Casapullo, Francesco Pio Del Vecchio, Lidia De Rosa, Silvia Errico, Gaia Faraci, Tommaso Fraraccio, Ilaria Lanzalotti, Christian Salvatore Lo Monaco, Francesco Misino, Giulia Monti, Erica Pattaro, Valentina Agata Reito, Carla Sacchetti, Elisa Simeoni, Sara Vedovati, Giulia Vergine e Matteo Zamboni. Un grazie di cuore anche a Ra Page di Comma Press e a Rachel Seiffert, per avere concesso la pubblicazione di questa traduzione.
(Pietro Deandrea)
Il racconto dell’uomo in attesa
come narrato a Rachel Seiffert
Ne ho passate così tante. Così tante.
Non sono solo parole, queste. Lo sento nella tua voce; lo vedo anche sul tuo volto, quando parte la videochiamata.
Ma poi sorridi per un attimo.
Lo facciamo entrambi: io, davanti al mio portatile; tu, dal tuo cellulare. Con un cenno del capo ci salutiamo riconoscenti, lieti di poterci parlare così, con tanti chilometri fra noi, di entrare in contatto in questo strano periodo di pandemia segnato dalla distanza, dalla separazione. Io in lockdown a Londra, tu nella cittadina del nord dove ti ha collocato il Ministero dell’Interno.
Ma appena ti chiedo come vanno le cose? il tuo sorriso sparisce di nuovo; guardi verso la finestra.
“Ne ho passate così tante. Così tante. E adesso sono bloccato, capisci? Sono proprio bloccato qui. In attesa.”
Ti trovi lontano dalla tua famiglia. Le tue due sorelle, insieme a figli e figlie, sparse per Londra. Per vent’anni – fin da quando eri ancora ragazzo – la città è stata casa tua. Brixton, Peckham, Lewisham: gli stessi posti a sud del fiume che anch’io chiamo casa.
Qui la vita va avanti, persino in questi giorni di pestilenza. C’è scuola per i giovani, lavoro per me, e per le tue sorelle. Potrei andarle a trovare, persino adesso – a piedi da una, con l’autobus dall’altra; potrei bussare alla loro porta per farci una chiacchierata, restando sui gradini di casa. Per te, però, questo è quasi impossibile. Economicamente, logisticamente. E hai paura che le regole possano cambiare. Le regole, le regole… Hai paura di violarle, senza nemmeno rendertene conto.
L’esperienza ti ha reso cauto: lo sai che – per quelli nella tua situazione – ci sono sempre delle conseguenze.
“Devo solo attendere.”
Fai spallucce nell’inquadratura del cellulare: che altro puoi farci?
Però non è giusto, rispondo io, che tu debba aspettare così lontano. Ma adesso insisti:
“Va bene, va bene.”
Con un cenno della mano, mi fai capire di non voler parlare di questo.
“Non parliamo della tristezza. Non voglio pensarci troppo.”
Piuttosto, mi fai fare un giretto della casa in cui ti hanno collocato. Il video salta e va a scatti quando ti alzi e porti il cellulare dal salotto comune al cucinino.
“Di’ ciao al bollitore.”
Ti metti a ridere.
“Ecco il tostapane.”
Giri lo schermo per farmi vedere ogni angolo e spiffero.
“E qui, ecco i fornelli. Li vedi ora?”
Guardi il lato positivo, ridacchiando per come devi schiacciarti contro la porta del frigo così che io veda te e i fornelli allo stesso tempo – così che si possa condividere un sorriso.
Sembra tutto davvero bello! dico. Perché è vero: la casa è accogliente, ordinata. Così sono sollevata anch’io: non è una brutta casa dove rimanere bloccati. In attesa.
Mi hai raccontato dei tuoi coinquilini – i miei colleghi, li chiami – e sembrano le persone giuste con cui rimanere bloccati. Siamo sulla stessa barca; siamo qui come una famiglia. I tre uomini con cui vivi sono stati tutti nella tua situazione: in attesa del loro documento d’identità, del loro ‘permesso di soggiorno’. Se il tuo arrivasse ora, immagino che sarebbe più come un ‘permesso di partenza’, o un ‘permesso di ritorno’ a Londra, dalla tua famiglia, e questo sarebbe davvero il benvenuto. Ma non lo dico ad alta voce; so che non vuoi parlarne. E vedo anche che hai altro da mostrarmi.
“Aspetta! Non te l’ho ancora detto? Abbiamo un giardino!”
Tenendo il telefono sollevato in avanti, apri la porta sul retro e mi fai uscire nell’improvviso chiarore di fuori.
La giornata è di un freddo luminoso, così come l’azzurro del cielo. Oltre il muretto del retro, mi mostri le case dall’altro lato della strada: la via di una cittadina del nord, casette a schiera con due stanze sopra e due sotto, le porte d’ingresso che danno sul marciapiede. Girando il telefono di lato, sveli una serie di giardinetti sul retro proprio come il tuo; mattoni per le mura e per i vialetti, spogli fili del bucato ad altezza d’uomo.
Inclini il cellullare verso l’alto – al cielo, e ai cavi telefonici che corrono in alto, per chilometri. Indichi quelle righe dritte come rotaie sullo sfondo azzurro luminoso; e poi mi volti a guardare l’orizzonte, le colline che si levano laggiù.
“Le vedi?”
Sì.
“Sono belle.”
È vero. E sono lieta che tu te le stia godendo; che giri il telefono per farmi vedere come sorridi nel sole.
La città, però; so che si trova in una valle. Una valle oscura, mi hai detto.
Inoltre è un posto in cui sei stato collocato; non è il tuo posto.
E come se non fosse abbastanza, ti viene ricordato – troppo spesso, da altri – che tu là sei fuori posto. Dall’anziano che sputa per terra mentre passi. Dai ragazzini che ti chiedono, che ci fai qui, uomo nero?
Rientrando in casa, ora, il tuo sorriso si affievolisce di nuovo mentre mi dici:
“A volte. A volte, mi sembra di attendere all’ombra della valle della morte – sai?”
Di nuovo, guardi verso la finestra.
Così nel silenzio che segue, domando:
Dimmi, G. Cosa c’era prima di questo?
So che stavi a Londra, accanto alla famiglia, alla familiarità, comunità; tutto ciò porta facilitazioni, anche se la vita di Londra non è stata sempre facile.
Ma prima di parlare di quella parte, andiamo ancora più indietro, ai giorni dell’infanzia in Ghana. Alla regione Ashanti, dove sei nato, e hai vissuto la tua giovinezza; dove avevi la tua famiglia intorno, anche.
“Avevo mia nonna, le zie.”
Le conti con le dita.
“Cugini, cugine e zii.”
La scuola ti riempiva le mattinate; più di due chilometri a piedi per andare e per tornare con gli altri ragazzi. Dopo le lezioni, andavi alla fattoria di tuo zio, a prenderti cura dei banani, della manioca.
Ma ne hai passate così tante – così tante – mi ripeto. So che hai lasciato il Ghana per buone ragioni, quindi sono pronta a saperne di più. Ma comunque, quello che mi dici dopo mi lascia di stucco.
“Da casa mia, m’hanno rapito.”
Chiudi gli occhi.
“M’hanno portato via.”
Una faida locale sfociata nella violenza, una disputa locale degenerata oltre ogni misura, ti sei ritrovato nel mezzo di quel caos– ed eri ancora un ragazzo, soltanto.
“M’hanno picchiato. M’hanno rinchiuso. Penso sia durato settimane, ma potrebbero essere stati mesi.”
Lo smarrimento di quel periodo si mostra nei tuoi tratti, nel modo in cui ti passi la mano sulla fronte, a disagio nel ricordare, nel raccontare ancora cose così dure.
Ti hanno rilasciato, alla fine, sei tornato dalla tua famiglia – che aveva ancora paura, senza più fiducia nelle autorità. Quindi hanno deciso, meglio per te andare ad Accra. Ancora meglio: andare a Londra. Fare il viaggio per la Madrepatria, quello che le tue sorelle avevano già fatto prima di te. Possedevano entrambe un passaporto britannico; col tempo, saresti riuscito a prenderlo anche tu. E là, assieme a loro, avresti trovato una protezione.
Per qualche tempo, questo è ciò che hai avuto.
Sei arrivato con un visto per finire le scuole. Sei rimasto anche dopo e hai lavorato: prima come magazziniere nei supermercati, poi come imbianchino e decoratore, mettendo a posto alloggi popolari per varie amministrazioni di quartiere.
Ma la Madrepatria nel frattempo è diventata ostile.
Cominciavano ad arrivare richieste di scartoffie, documenti e prove. Le regole, le regole: questa era la prima volta che le violavi. Ti hanno detto che ti era scaduto il visto; ti hanno detto che ti era scaduto ogni benvenuto.
E adesso ti prendi una pausa dalla conversazione, distogliendo lo sguardo dal telefono, verso la finestra, a pensare accigliato: come raccontare tutto questo?
Non vuoi trovare delle scuse.
Lo sai che la tua famiglia avrebbe dovuto metterti in regola coi documenti, che avresti dovuto far domanda per un passaporto molto prima, per diventare cittadino britannico. Ma ci tieni proprio a spiegarmelo, come si sta, quando ti ritrovi in questa situazione: giovane e non benvenuto, e dalla parte sbagliata della legge.
Fa male, dici, in un modo che ti trasforma.
Ti cambia, in modi che non credevi possibili.
“Se sei uno che non fa uso di droga, potresti ritrovarti a farne uso. Cose che non crederesti mai di fare, ti ritroverai a farle.”
Questo è ciò che l’esperienza ti ha insegnato. Perché ti sei ritrovato a farne uso, ti sei ritrovato a venderla.
“È così che, per un anno e dieci mesi, sono stato in prigione.”
Dopo che l’hai detto, restiamo un po’ seduti in silenzio. La tua storia è dura da raccontare – così tante, ne hai passate; che esperienze… Del tipo che ti distrugge, quel genere che lascerebbe il segno su chiunque, anche sui più forti.
Ma tu mi dici che la prigione non è stata la cosa più dura.
“No! La prigione mi ha dato un’opportunità.”
Lo dici convinto.
E poi spieghi:
“Potevo lavorare di nuovo.”
Potevi pensare e discutere delle tue esperienze; potevi aiutare gli altri.
“Potevo essere attivo. Attivo, capisci? Sentivo di poter dare una svolta alla mia vita.”
Ma quando sei stato rilasciato questa volta – alla fine – non è stato per tornare dalla tua famiglia.
Appena messo piede fuori dai cancelli della prigione, c’era una squadra di deportazione ad attenderti; il Ministero dell’Interno ti ha portato direttamente dalla prigione a un centro di detenzione.
“Qui, vedi? È qui che è iniziata la mia attesa.”
Mi racconti della stanza senza finestre dove ti hanno fatto dormire; la terribile incertezza; il tira e molla con le autorità; i lunghi incontri e le telefonate, i colloqui con gli avvocati, che vanno e vengono, vanno e vengono.
“Un altro anno e dieci mesi, ho scontato lì. Un altro anno e dieci mesi, sommati alla mia sentenza. La prima era per un crimine. Ma la seconda? Cos’è che avevo fatto?”
Non avrebbero proprio dovuto trattenerti così a lungo.
Ancora adesso, la detenzione ti tormenta. Il pensiero di essere riportato là; che arrivi per te un’ordinanza, così, in qualsiasi momento, con una lettera, una telefonata.
“La notte è una fatica. Te lo devo dire.”
Scuoti la testa.
“Ho paura, ora. Ho davvero paura.”
Proprio stamattina è arrivata una lettera, inaspettata, dal Ministero dell’Interno. Non una notifica di deportazione – grazie al cielo – ma comunque t’ha scatenato l’ansia.
“Si tratta del mio sussidio. M’hanno dato più del dovuto.”
È una richiesta di soldi, di documenti – e tu non hai nessuno dei due, ovviamente. Come puoi lavorare senza permessi? Come puoi guadagnare soldi senza un lavoro? Questo è il ciclo infinito in cui sei intrappolato. È così che ti gira la vita mentre sei in attesa. E al momento non hai un avvocato che t’aiuti.
“Che devo dire stavolta?”
Mi guardi, sullo schermo del telefono, e poi guardi il foglio, passandoti di nuovo la mano sul viso.
“L’ho già detto al Ministero dell’Interno: toglietemi cinque sterline a settimana dal sussidio. Posso farcela.”
Cinque sterline dalle tue 39 settimanali? Sono inorridita: si tratta di cifre ridotte all’osso.
Annuisci, lentamente, e poi alzi la lettera per mostramela:
“Ma eccola, guarda: dicono che ogni settimana dovrò pagare sette sterline.”
E il modo in cui lo dici, set-te ster-li-ne, scandendo le sillabe, mi fa domandare: è quella la differenza, forse, tra mangiare domani oppure no?
È fatta così, l’attesa. Ti fa questo, l’attesa.
Per un po’ parliamo di avvocati; dei prossimi passi, del risolvere questo casino della lettera. La cosa più probabile è che sia stata sputata fuori da un computer del Ministero dell’Interno, emanata secondo una procedura prestabilita; una richiesta standard per tutti coloro cui hanno sbagliato i calcoli del sussidio. Non avrà nulla a che fare con la decisione sul tuo ‘permesso di soggiorno’. Ma comunque. Ti lascia in condizione di dover spiegare ciò che non avrebbe bisogno di spiegazioni. Ti lascia in bilico.
Ho paura, ora. Ho davvero paura.
Un attimo dopo, però, inspiri, espiri; ti tranquillizzi. E quando riprendi a parlare, la voce è più forte:
“Devo vivermela un giorno alla volta.”
Ecco cosa è meglio, hai imparato.
“Ogni mattina trovo delle piccole cose di cui essere contento. Anche solo una cosina – mi aiuta.”
Ti guardi intorno, per trovarmi un esempio:
“Allora, stasera – forse mi cucino un pezzo di pollo.”
Fai una risatina. Un po’ caustica. E guardi verso la finestra; di nuovo, guardi verso la finestra – ma stavolta non lasci che il tuo sorriso svanisca.
Invece, sollevi una tazza che ti stava accanto durante la nostra chiacchierata.
“Vedi? La vedi questa? Mi farò una tazza di – magari adesso mi faccio una cioccolata calda.”
Finiamo la nostra chiamata in questo modo. Senza parlare di tristezza; trovando maniere per guardare avanti, anche se devono essere piccole per il momento.
Ma adesso voglio riferire questo – tutto ciò che tu mi hai detto.
Quanto dura sia l’attesa.
Le così tante che hai passato.
E quel che ci vuole per vivere ogni giorno come fai tu.
La notte è una fatica, te lo devo dire.
Ma ogni volta che arriva il mattino, sono di nuovo contento.
E sono in attesa. Sono in attesa.
(“The Waiting Man’s Tale”, da Refugee Tales IV, a cura di David Herd e Anna Pincus. Manchester: Comma Press, 2021, pp. 29-36. Traduzione di Pietro Deandrea)
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