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Cultura e scienza / Opinioni

Se il profitto ti salva e la cultura serve a poco: allora siamo proprio al buio

© Tyler Callahan - Unsplash

“Se spegni la scuola, i teatri, le biblioteche, le mostre, i cinema, la pittura, la danza, la poesia, il giornalismo, il godimento di un paesaggio, stai colpendo a morte il cuore del Paese. Stai uccidendo il pluralismo ed è pericolosissimo”. L’appassionato appello del prof. Paolo Pileri dopo le chiusure degli spazi culturali

Mai come nei momenti di buio, di crisi, di disperazione c’è bisogno del colpo di coda, della nuotata controcorrente per evitare di scivolare nelle rapide che, suadenti, ti trascinano giù. Se la cosiddetta “seconda ondata” di Covid-19 ci sta travolgendo è per colpa solo nostra. Come bambinetti che non vogliono studiare d’estate pur avendo tre materie a settembre, pretendiamo di essere promossi anche senza aver aperto un libro. Siamo arrivati impreparati alla “seconda ondata” ma fingiamo di non aver bisogno di capirne i motivi.

Siamo al buio e nel buio soffiamo sulla ultima fiammella che rischiara una possibile energia di ripresa che si chiama cultura. Cultura nelle sue diverse forme, ma soprattutto cultura da intendersi come pensiero libero, come arte del coltivare il pensiero critico, come inno alla bellezza di pensare.
Un Paese si salva solo così. Se spegni la scuola, i teatri, le biblioteche, le mostre, i cinema, la pittura, la danza, la poesia, il giornalismo, il godimento di un paesaggio, stai colpendo a morte il cuore del Paese. Stai uccidendo il pluralismo ed è pericolosissimo. Non solo. Se spegnendo tutto questo l’unica risposta è la compensazione finanziaria, pur legittima per alcuni (ma non per tutti), stai uccidendo anche i suoi sogni di miglioramento appiattendoli al livello del soldo e del profitto. Stai spogliando il Paese della sua polpa, bella e piena di storia, per salvarne le ossa. Chiudi la cultura e prometti soldi. Il messaggio è chiaro: il profitto ti salva, la cultura serve a poco.

È come pretendere che il pesante ponte che ti porta al di là del guaio in cui siamo, poggi le sue arcate su pilastri fini come le gambe di un fenicottero. Stiamo scivolando per una china abissale dalla quale risalire è giorno dopo giorno più complesso se non impossibile.
Già nel primo lockdown non sentivamo parole che ci scaldavano il cuore, che facevano autocritica sul modello di sviluppo, che invitavano a cambiare sguardo sulle cose. Sentivamo solo inviti a stringere i denti in attesa di quella abominevole normalità che non era affatto normalità. E ora stiamo facendo uguale se non peggio. Stiamo mettendo cavalli di frisia e filo spinato davanti agli ingressi di teatri, scuole, mostre e cinema.

Fra un po’ vieteranno di passeggiare e correre e chiuderanno le librerie, come drammaticamente fatto mesi fa. Tutte misure che tagliano le gambe al pensiero e ci riducono a robot inevitabilmente più aggressivi che sempre meno sopporteranno i cambiamenti e i contenimenti, perché sempre meno avranno gli strumenti per capirli, elaborarli e per aprirsi serenamente a un domani diverso. Perché è più in là dell’oggi che dobbiamo guardare.
Finito questo lockdown nel quale siamo stati rapinati di cultura e pensiero, ne usciremo peggiori e da peggiori avremo meno forza e capacità di elaborare il cambiamento lasciandoci sopraffare da quella “normalità” tossica che ci ha portato fin qui.

La generosità, la stima, l’umiltà, la bellezza, la lealtà, il rispetto per la natura, l’onestà e via via i valori sociali e umani che fanno da pavimento a una buona società non si comprano su Amazon, non stanno nel bilancio di un’azienda, non sono compensabili con incentivi e sconti fiscali, ma solo con cultura, cultura, cultura. Chiuderla è entrare in una spirale mortale. Come non capire? Non ho ricette ma mi metto dalla parte di chi chiede di non spegnere il cervello che poi serve proprio a elaborare quelle ricette.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)

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