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Economia

Il petrolio irrinunciabile

Il più grande giacimento di greggio scoperto negli ultimi 10 anni nel mondo è anche una bomba ecologica. Ma Eni, capofila del progetto con 20 miliardi di dollari di investimento, non può farne a meno. Tanto da portare Prodi fino…

Tratto da Altreconomia 88 — Novembre 2007

Il più grande giacimento di greggio scoperto negli ultimi 10 anni nel mondo è anche una bomba ecologica. Ma Eni, capofila del progetto con 20 miliardi di dollari di investimento, non può farne a meno. Tanto da portare Prodi fino in Kazakistan


L’aereo per Atyrau è affollato di soli uomini. Italiani, turchi, statunitensi, tutti operai e tecnici del petrolio. Sono l’unica donna.

In un modo o nell’altro, tutti siamo qui per Kashagan, il più grande giacimento di petrolio scoperto negli ultimi 10 anni, e non ancora esplorato. Milioni di barili di oro nero che potrebbero diventare causa di una catastrofe ambientale.

Kashagan si trova in uno degli ecosistemi più fragili al mondo, vicinissimo alla zona protetta del delta del fiume Ural, frontiera geografica tra Europa e Asia che divide a metà la città di Atyrau. È un isola a 70 chilometri al largo di Atyrau, nella parte settentrionale del Mar Caspio, in Kazakistan. Sotto un mare profondo tra i 3 e i 4 metri -un unico blocco di ghiaccio nei freddi inverni di questa regione-, il petrolio è a 5.000 metri di profondità. Petrolio su cui ha messo le mani la multinazionale italiana Eni, dal 2002 a capo dei lavori a Kashagan per il consorzio Agip Kco (vedi box pag. 28). L’Eni è responsabile per la costruzione degli impianti in mare e su terra atti all’estrazione e alla lavorazione del petrolio. Un’impresa faraonica e rischiosa, che il consorzio avrebbe dovuto terminare già alla fine del 2005, ma che per problemi tecnici è stato costretto a rinviare due volte, con conseguente aumento dei costi complessivi fino all’astronomica cifra di 136 miliardi di dollari.

Lo scorso 8 agosto il governo kazako ha perso la pazienza e all’annuncio di un ulteriore rinvio al 2010 ha risposto bloccando i lavori per l’esplorazione a Kashagan e chiedendo a Eni una compensazione di circa 10 miliardi di dollari per violazioni ambientali commesse dal consorzio. La mossa kazaka è costata ad Eni la perdita di qualche punto sui mercati internazionali, e un gran mal di testa al suo amministratore delegato, Paolo Scaroni, che da agosto ad oggi è volato diverse volte nella capitale Astana per cercare una soluzione rapida e indolore alla controversia. Scaroni vuole evitare la cacciata di Eni dal consorzio e conseguentemente la perdita del controllo di quei 14 miliardi di barili di riserve estraibili, un colpo troppo duro in termini di perduti guadagni ma anche rispetto alla valutazione sui mercati finanziari della compagnia, oggi al sesto posto a livello mondiale per riserve controllate. Per salvare Eni si è mosso anche il nostro governo, con diverse dichiarazioni e con una missione di Stato ad inizio ottobre che ha visto il primo ministro Romano Prodi volare prima ad Astana e poi ad Atyrau per cercare di mediare una soluzione “amichevole” della controversia.

Invece, per riportare l’attenzione sugli altissimi rischi ambientali e sociali collegati allo sviluppo di questo progetto e soprattutto alle richieste delle comunità locali si è mossa la missione internazionale di organizzazioni non governative cui partecipo.

Sono anni che la società civile di Atyrau, i responsabili regionali dei ministeri dell’Ambiente e della Salute, gli scienziati e i giornalisti, lamentano il problema delle emissioni di solfati collegate all’estrazione del petrolio in questa regione. Non esistono al momento tecnologie abbastanza avanzate da garantire la sostenibilità dell’estrazione del petrolio e la sicurezza degli abitanti della regione, che evitino con certezza che Kashagan diventi una catastrofe ecologica a livello planetario. La “messa in sicurezza” dovrebbe coinvolgere l’intero ciclo del petrolio: dall’estrazione, quando avvengono le prime emissioni di solfati e altre sostanze tossiche, alla lavorazione, quando si verificano ulteriori emissioni, allo stoccaggio dello zolfo, non pericoloso nella sua forma cristallina ma estremamente sensibile agli agenti atmosferici, che ne provocano rapide e pericolose trasformazioni nella composizione chimica.

Per capire la potenziale devastazione che potrebbe derivare da Kashagan basta guardare a Tengiz, giacimento distante circa 200 chilometri dalla città, geologicamente molto simile a Kashagan, dove le estrazioni procedono da oltre 10 anni. Lo stato di salute della popolazione di Atyrau e dell’intera regione del Nord del Caspio si è degradata negli ultimi anni a causa delle polveri presenti nell’aria e portate fino a qui da Tengiz, dove sono stoccati all’aria aperta oltre 10 milioni di tonnellate di zolfo. Un’enorme piramide gialla visibile dalle foto satellitari della zona esposta alle condizioni estreme della regione (temperature che variano da +50 gradi d’estate a -50 gradi d’inverno), che viene riconosciuta tra le cause principali delle piogge acide a livello regionale e potenzialmente a livello globale.



Negli ultimi dieci anni Atyrau si è trasformata da anonima città sul Caspio nella capitale del petrolio, con voli diretti da Amsterdam ogni giorno, palazzi moderni, popolazione decuplicata (circa 100.000 abitanti oggi, che diventano 220.000 includendo i centri minori del resto della regione) e gli uffici regionali di tutte le grandi compagnie petrolifere, in espansione per accogliere anche il personale delle sedi europee. Il costo della vita in città è salito alle stelle, senza adeguamento dei salari, causando un drastico impoverimento della maggioranza della popolazione, costretta a vivere con 80 euro al mese. Secondo stime non ufficiali, quasi il 90% della popolazione locale vive sotto la soglia della povertà, senza accesso ai servizi di base e nella maggior parte dei casi senza energia per cucinare e riscaldarsi. Nei freddi inverni di questa terra, nella nuova capitale del petrolio i più sono costretti a riscaldarsi bruciando carbone.

La prospettiva che lo sfruttamento di Kashagan diventi un nuovo Tengiz fa rabbrividire le persone che incontriamo. Ad Atyrau tutti hanno un familiare o un conoscente che lavora con le compagnie petrolifere. E tutti conoscono Tengiz, e preferiscono starne lontani. A partire dall’incidente al pozzo 37 nel lontano luglio del 1985, quando morì un operaio e centinaia di persone furono costrette a lasciare le proprie case dopo che il pozzo continuò a bruciare per oltre un anno.

L’area colpita dalle emissioni attorno a Tengiz si sta allargando. Nel corso degli anni, già due villaggi sono stati sfollati e i loro abitanti trasferiti nelle periferie di Atyrau. Oggi si parla di trasferire gli abitanti della città di Qulsari, 60 mila persone che vivono a 75 chilometri dall’impianto. Secondo i medici con cui parliamo ad Atyrau “se iniziano le operazioni a Kashagan e agli impianti di lavorazione del petrolio di Bolashank, a 30 chilometri dalla città, forse dovremmo sfollare gli abitanti di Atyrau”. Lungo la costa Est del Mar Caspio, gli abitanti di Bautino e Fort Shevchenko già soffrono delle emissioni di solfati provenienti dal trattamento dei fanghi e delle acque oleose trasportati nelle vicinanze dall’isola artificiale di Kashagan. Irritazioni diffuse della pelle, sangue dal naso, forti mal di testa.

Oltre 200 foche del Caspio sono state trovate morte in una sola settimana a inizio aprile, sulla sponda vicino Bautino. A Fort Shevchenko durante la notte, verso le tre, ci sono strane emissioni provenienti dall’impianto di Koshanai, parte delle infrastrutture su terra della base marina di Atash, costruita da Agip Kco con un finanziamento della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.

Prima si percepisce un forte odore di bruciato e poi di ammoniaca. Respirare diventa impossibile. Bruciano gli occhi e la gola fa male. Da quando succede, i bambini piangono sempre e hanno forti mal di testa. Sono aumentati i casi di cancro e anemia.



Le ong locali e internazionali hanno chiesto all’Eni di rendere pubbliche tutte le informazioni sugli impatti sociali, ambientali e sulla salute di Kashagan. All’esecutivo italiano, che controlla il 30% dell’Eni e nomina le sue più alte cariche dirigenziali, è stato chiesto di facilitare la pubblicazione di questi documenti e cercare un contatto con le comunità locali, per ascoltare le loro preoccupazioni a riguardo. Abbiamo chiesto inoltre che si realizzi una valutazione scientifica indipendente degli stessi impatti nelle regioni di Atyrau e Mangistau, prima che si riprendano i lavori a Kashagan.

Fino ad ora, non siamo riusciti a incontrare la compagnia né abbiamo avuto risposte dal governo.

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