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Il Paese della gioventù scoraggiata

Nel libro "NEET" il professor Alessandro Rosina indaga i fenomeni sociali e culturali che portano i giovani a scegliere di non studiare e di non lavorare. In questa condizioni vivono quasi 2,3 milioni di italiani tra i 15 e i 29 anni. "Il costo dei Neet per la collettività equivale all’1,2 percento del Pil europeo e sale fino all’1,9 percento per l’Italia -spiega ad Ae-. Ci sono poi i costi individuali, sia materiali che psicologici, di difficile quantificazione". Per approfondire leggi "A voce alta", il numero di novembre 2015 di Altreconomia

Tratto da Altreconomia 176 — Novembre 2015

Alessandro Rosina insegna Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano. Per Vita e pensiero ha pubblicato da poco il libro “NEET. Giovani che non studiano e non lavorano”. Lo abbiamo intervistato, e pubblichiamo le sue riflessioni come “extra” rispetto ai due articoli che compongono il servizio di copertina di Altreconomia 176, dedicato ai giovani, “A voce alta”.

Qual è la corretta definizione di Neet, e in che cosa si differenzia dal tasso di disoccupazione giovanile?
L’acronimo Neet sta per "Not in Education, Employment or Training", e indica la percentuale di giovani che non stanno né studiando né lavorando. Usualmente fa riferimento alla fascia tra i 15 e i 29 anni di età. A differenza del tasso di disoccupazione giovanile include quindi una fascia più ampia e prende in considerazione non solo chi cerca attivamente lavoro ma anche chi non lo cerca più perché scoraggiato. È quindi la misura più adeguata per esprimere lo spreco e il sotto-utilizzo del potenziale giovanile con conseguente deterioramento di occupabilità e produttività futura.

Esiste una “specificità” italiana in Europa?
L’Italia presenta il valore più elevato in termini assoluti di Neet in Europa, quasi 2,3 milioni (tra i 15 e i 29 anni), e il secondo in termini relativi (dopo la Grecia). Il dato è maggiore nel Sud, ma è cresciuto molto anche al Nord negli anni di crisi. L’elevata presenza di lavoro nero consente a una parte di giovani di cavarsela con lavoretti o attività nel sommerso. Inoltre se il fenomeno non è ancora diventato dramma sociale è per il maggior prolungamento della permanenza nella casa dei genitori. Entrambe queste specificità italiane rendono pesante la condizione nel presente ma rischiano anche di compromettere la realizzazione di pieni progetti di vita e professionali nel medio e lungo periodo.

Quali sono le cause? C’entrano le inefficienze del sistema produttivo?
Pur essendo l’Italia uno dei Paesi con meno giovani e meno laureati, riusciamo a collocare e valorizzare di meno anche i più formati e preparati all’interno delle aziende italiane. Con la conseguenza di una crescente emigrazione giovane e qualificata verso l’estero.
La combinazione tra riforme del mercato del lavoro che hanno fatto aumentare l’area grigia anziché ridurre la disoccupazione, da un lato, e carenza di politiche industriali di espansione dei settori più dinamici e competitivi, dall’altro, hanno prodotto una domanda di manodopera al ribasso, compromettendo non solo la condizione dei giovani ma anche quantità e qualità del loro contributo nel sistema produttivo. 
Detto in altre parole, le aziende italiane sono state incentivate a resistere sul mercato riducendo il più possibile il costo del lavoro -con contratti al massimo ribasso- anziché migliorare processi, prodotti e servizi facendo leva sulle specifiche capacità e competenze delle nuove generazioni.

È possibile quantificare il danno economico di un numero così alto di Neet, in termini di capacità di produzione di ricchezza ignorata/dimenticata?
Una stima del danno economico è stata prodotta dall’Eurofound. Grazie a tale quantificazione del costo sociale prodotto dalla crescita dei Neet l’Europa ha deciso di investire sul piano "Garanzia giovani", specificamente mirato a migliorare l’occupabilità delle nuove generazioni. Il costo dei Neet per la collettività equivale all’1,2 percento del Pil europeo e sale fino all’1,9 percento per l’Italia. Ci sono poi i costi individuali, sia materiali che psicologici, di difficile quantificazione.

Nel suo libro parla di inerzia sulle politiche attive: di che cosa si tratta?
Uno dei motivi per cui ci troviamo con uno spreco così ampio del potenziale produttivo delle nuove generazioni è il nostro basso investimento in politiche attive del lavoro, che mirano ad aumentare e stimolare la capacità della persona di sapersi collocare nel mercato, l’aggiornamento delle conoscenze e competenze lavorative, l’intraprendenza e l’autoimprenditorialità.
I mezzi per ottenere tali risultati sono vari, ma l’asse centrale è una solida ed efficace rete di servizi per l’impiego. Per la carenza di questi strumenti è maggiore in Italia che nel resto d’Europa il numero di giovani che entrano in una nuvola grigia nel passaggio tra fine percorso formativo ed entrata nel mercato del lavoro.

Qual è il ruolo dei fattori culturali e delle famiglie di origine?
Ciò che frena e depotenzia la spinta propulsiva delle nuove generazioni in Italia è un insieme di fattori intrecciati in un nodo che nel tempo è diventato quasi inestricabile. Oltre ai fattori economici e istituzionali, ci sono anche quelli culturali. In particolare, l’iperprotezione da parte delle famiglie italiane tende a mantenere immaturi più a lungo i figli, mentre la spinta all’autonomia subito dopo i 20 anni nei Padel Nord Europa costringe i giovani a confrontarsi prima con la realtà circostante e con il sistema di vincoli e opportunità a cui va incontro la propria generazione. 
La conseguenza è che a 25 anni hanno più consapevolezza, esperienza e strumenti per costruire attivamente il proprio percorso di vita, mentre i giovani italiani sono ancora nella grande maggioranza dei casi passivamente dipendenti dai genitori alla stessa età e disorientati sul proprio futuro. Prima ancora che essere attivi nel mercato del lavoro vanno stimolati ad essere il prima possibile intraprendenti verso la costruzione del proprio futuro.

Nel libro si indicano quattro misure: riduzione della dispersione scolastica, investimento sulle competenze, interventi sul mercato del lavoro, sostengo all’intraprendenza dei giovani. Come realizzarle?
Si tratta di misure da realizzare sia con orizzonte di breve che di medio periodo: nel primo caso per evitare che gli attuali giovani affacciati al mercato del lavoro siano una “lost generation”, nel secondo soprattutto per promuovere condizioni migliori per le generazioni ancora impegnate nel percorso formativo. Tali obiettivi devono essere considerati una priorità nazionale e quindi mobilitare tutte le risorse necessarie per arrivare ad ottenere i risultati stabiliti. I giovani devono essere messi nelle condizioni di essere una ricchezza per l’economia e non un potenziale onere.
L’incoraggiamento a investire sulla propria formazione, da un lato, e l’espansione delle opportunità di valorizzazione delle loro competenze sul mercato del lavoro, dall’altro, non possono che essere la precondizione per riattivare un circolo virtuoso che coniuga realizzazione individuale, benessere sociale e sviluppo economico. Non è solo la condizione dei giovani ad essere in gioco, ma il futuro del Paese.
 
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